SCOPRI GLI INSETTI

Scopri le caratteristiche degli insetti che più frequentemente sono causa di disturbo e fastidio. Studiandone il comportamento potrai usare in maniera più efficace i nostri prodotti.

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Gli acari (Acarina) sono una sottoclasse di aracnidi composta da due o tre superordini o ordini: Acariformi (o Actinotrichida), Parassitiformi (o Anactinotrichida) e Opilioacariformes; quest’ultimo è spesso considerato un sottogruppo all’interno dei parassitiformi.

DESCRIZIONE
Sono probabilmente tra i primi animali ad aver colonizzato la terraferma: il primo reperto fossile risale infatti a 290 milioni di anni fa.

Si tratta di animali di piccole dimensioni (da meno di un mm fino a 3 cm di lunghezza), caratterizzati dalla fusione del cefalotorace con l’addome e dall’assenza di segmentazioni evidenti. Comprendono numerose specie parassite temporanee o permanenti di animali e vegetali, responsabili di infestazioni denominate acariasi.

Gli Acari presentano una notevole varietà morfologica, potendo avere un apparato boccale adatto a scavare, succhiare o pungere grazie ai cheliceri chiusi in un rostro formato dalla base dei pedipalpi allungate e saldate a tubo; possono avere zampe adatte alla corsa, al nuoto, munite di uncini o ventose per aggrapparsi al substrato; in alcuni casi sono sprovvisti di zampe, non avendo esigenze di locomozione, come il genere Linguatula. L’apparato respiratorio è atrofico e la respirazione avviene attraverso la cute molle. La riproduzione avviene generalmente con la deposizione delle uova, da cui nascono larve esapodi che, nel corso della metamorfosi verso lo stadio adulto, acquistano il quarto paio di zampe.

Un esempio particolare di ciclo vitale è quello dell’Adactylidium: la femmina, una volta fecondata, si attacca ad un uovo di tripide, da cui riceve nutrimento – l’unico, visto che non potrà ottenerne altro. Le uova (da 6 a 9, di cui da 5 a 8 sono femmine) si schiudono nel corpo della madre, 48 ore dopo che essa si è attaccata all’uovo di tripide. Le larve, fuoriuscitene, in un paio di giorni raggiungono lo stadio adulto, sempre all’interno del corpo materno, a spese del quale si nutrono: a questo punto l’unico maschio feconda tutte le sorelle. Infine, bucato l’involucro esterno di quel che resta del corpo della madre, il maschio non vive che poche ore, mentre le femmine, già fecondate, vanno in cerca di un altro uovo di tripide.

DISTRIBUZIONE ED HABITAT
Sono state descritte circa 30 000 specie (ma si pensa possano esisterne circa 500 000) diffuse in tutto il mondo ed in quasi tutti gli ambienti naturali ed antropizzati: gli Oribatei vivono nel muschio e nel terriccio, dando la caccia a piccole prede; gli Idracnidi popolano le acque dolci, mentre gli Alacaridi vivono nel mare; i Tiroglifi vivono sul materiale organico come la farina, i formaggi e la frutta secca, causando frequentemente acariasi agli addetti alla manipolazione di derrate infestate, come nel caso di cereali colonizzati da Pediculoides ventricosus.

RAPPORTI CON L’UOMO
Molte specie di acari sono causa per l’uomo di forti allergie come asma e raffreddore e si nutrono di forfora umana e polvere insediandosi nei materassi, nelle moquette o nei tappeti. Tra le specie più note, generalmente ematofagi che infestano uomini e animali insediandosi sulla cute o sotto di essa, citiamo gli Ixodida comunemente noti come zecche, le quali oltre a provocare fastidiose irritazioni cutanee (note col nome di rogna), possono essere vettori di pericolose malattie, causate da agenti patogeni come Babesia e Rickettsie; di notevole importanza come responsabili della scabbia citiamo i Sarcoptidi tra cui la Sarcoptes scabiei che scava minuscole gallerie sotto la cute dove trova nutrimento e ambiente adatto all’ovideposizione della femmina; particolarmente visibili sono gli attacchi dei Demodecidi che vivono sulla pelle dell’ospite, in particolare la specie Demodex folliculorum colonizzando le ghiandole sebacee e i follicoli piliferi del viso provoca fastidiose follicoliti, mentre nel cane e in altri animali domestici provoca la rogna follicolare con conseguente caduta del pelo, desquamazione epidermica e in alcuni casi pustole ad esito sclerotico. I pollai possono essere infestati dalle specie del genere Dermanyssus che provocano fastidiosi pruriti e perdita di produttività negli animali allevati.

Nei vegetali gli acari provocano la formazione di galle e malformazioni fogliari, in particolare le colture agricole possono subire attacchi da Tetranichidi, Eriofidi, Tenuipalpi e Tarsonemidi. Da non sottovalutare infine l’azione degli acari Epidermoptidi che colonizzano le abitazioni e con il genere Dermatophagoides presente nella polvere, possono causare fastidiose allergie negli umani.

Il calabrone (Vespa crabro Linnaeus, 1761) è il più grosso vespide europeo. Nel linguaggio comune con il termine “calabrone” vengono spesso erroneamente identificati anche l’ape legnaiola (Xylocopa violacea) e il bombo terrestre (Bombus terrestris).

Il calabrone è la più grande delle vespe europee e nordamericane; insetto prevalentemente carnivoro, predatore di altri insetti, non disdegna però la polpa della frutta e i nettari zuccherini e ciò contribuisce a spiegare la sua diffusione in aree agricole.

I calabroni realizzano i loro nidi di carta utilizzando fibre vegetali impastate con saliva.

DESCRIZIONE
L’adulto è glabro, di colore bruno rossiccio con macchie e strisce gialle, di estensione variabile a seconda della sottospecie. La regina raggiunge normalmente i 35 mm di lunghezza mentre i maschi e le operaie misurano da 20 a 25 mm. I calabroni vivono in nidi esternamente a forma di sfera, costruiti con legno impastato con la loro saliva. Le colonie sono costituite da circa 100-300 esemplari. A causa del colore del capo, gli esemplari più grossi di regina possono essere confusi con la ben più aggressiva Vespa mandarinia japonica (calabrone gigante giapponese), ancora assente in Europa o con le versioni chiare di Vespa velutina (vespa della Cornovaglia), specie presente in Europa da diversi anni e in Italia dal 2012 (peraltro soprattutto con la sottospecie nigrithorax più scura) in corso di eradicazione da Liguria e Piemonte mediante strumenti sofisticati.

Pur essendo un insetto prevalentemente diurno, il calabrone svolge anche attività parzialmente notturna se attirato dalle luci artificiali che ha imparato essere altrettanto gradite a varie sue prede e lo si può trovare attivo anche in autunno inoltrato.

Nei confronti dell’uomo di solito è tendenzialmente indifferente (a differenza della vespa comune, per esempio, che spinta da curiosità può avvicinarsi all’uomo) e cerca di sottrarsi con rapida fuga o nascondimento ai tentativi di abbattimento. Tuttavia, mentre si può sostare con relativa tranquillità vicino a un albero da frutta in presenza di calabroni e cogliere i frutti sui quali non si siano posati, questi insetti possono diventare molto aggressivi se messi alle strette o in vicinanza del nido. Le femmine sono dotate di pungiglione, le cui punture (conseguenti a una reazione difensiva dell’animale) possono essere molto dolorose per gli esseri umani; esse, inoltre, liberano feromoni che informano dell’attacco in corso gli altri calabroni, talvolta provocandone l’intervento in gruppo. Come nel caso delle altre vespe e delle api, il veleno inoculato ha effetti solo locali e transitori per la maggior parte delle persone, ma può provocare nei soggetti allergici reazioni anafilattiche anche mortali.

CICLO VITALE
In primavera, una fondatrice di calabrone si sveglia dall’ibernazione e incomincia a costruire alcune cellette in un luogo riparato e difficile da individuare. Incomincia così a deporre le uova che, finché non si svilupperanno, sarà lei ad accudire. Si parla in tal caso di nido primario.
Inizialmente il nido si presenta come una semisfera vuota rivolta verso il basso e di pochi centimetri di diametro, nell’interno della quale risiedono le prime cellette, delle strutture esagonali ed adiacenti rivolte verso il basso, ognuna contenente una forma di sviluppo: uova, che dopo circa 5-8 giorni diventano larve. Le larve impiegano 2 o 3 settimane a crescere, occupando via via il volume della propria cella, nutrite con carne di altri insetti, prevalentemente muscoli alari, cacciati e triturati dalla regina. Le larve mature entrano poi nella fase pupale, creando un tappo sericeo per chiudersi all’interno delle celle prima di trasformarsi, nell’arco di un altro paio di settimane, in vespe adulte. Esse sono operaie, femmine sterili dedite alla cura della colonia. La prima manciata di operaie, cresciute dalla sola regina, rimane di piccole dimensioni. Infatti, prima della loro emersione, è la sola regina che le nutre ed espande il nido.Nate le prime vespe operaie, la futura regina abbandona gradualmente le mansioni iniziali e si dedica alla sola deposizione delle uova. La regina, nutrita dalle operaie, andando di cella in cella, depone uova e controlla che le larve siano tutte sue figlie, diversamente le uccide.
Le operaie svolgono tutti i lavori: nutrici, toelettatrici, foraggiatrici, guardiane, costruttrici.Le massime dimensioni della colonia sono raggiunte attorno al mese di settembre, quando anche la popolazione di operaie è al suo massimo. L’attività della colonia è frenetica, perché una covata consistente ha bisogno di essere nutrita. Il materiale da costruzione per il nido è una solida fibra vegetale, viene ottenuta impastando con la saliva le fibre di legno dei rami giovani di vari alberi a corteccia morbida, fino a ottenere una pasta modellabile, che, una volta indurita, sarà solida e dall’aspetto cartaceo. Infatti i nidi di V. crabro hanno consistenza cartacea, sebbene siano relativamente impermeabili e molto resistenti.
Dalle prime operaie e dal primo piano di cellette, la colonia cresce sempre di più durante l’estate. La fondatrice, ora pienamente denominabile regina, subisce un aumento del volume addominale a fronte della necessità di deporre un numero di uova sempre maggiore. Le operaie di un nido maturo in agosto possono essere dell’ordine delle centinaia.
A fine estate/inizio autunno, la regina cessa provvisoriamente di deporre le uova per lasciare alla sua prossima covata lo spazio necessario per crescere. L’ultima covata del nido, è però particolare. Non darà vita ad altre operaie, perché composta da larve di vespe aploidi maschi, nate da uova non fecondate e vespe di sesso femminile che si svilupperanno in nuove future fondatrici a causa del maggior apporto di cibo da parte delle numerose operaie e della diminuzione dei feromoni di dominanza prodotti dalla regina originale. Appena l’ultima covata è dischiusa, attorno a settembre, comincia il declino del nido. Le nuove regine e i maschi, ora molto numerosi rispetto alle operaie, a ridosso dell’inverno avviano il periodo degli accoppiamenti. Ogni femmina fertile copula con un maschio preferibilmente di un’altra colonia, dopodiché incomincia ad accumulare grasso corporeo tramite liquidi zuccherini per prepararsi ad affrontare la stagione fredda. Se tutto andrà bene, le femmine fecondate saranno le regine dell’anno successivo.
Nel frattempo, la vecchia regina, ormai troppo anziana per deporre altre uova nel nido, si allontana dal suo regno e muore di vecchiaia, attorno a settembre/ottobre. Dopo di essa, progressivamente, anche le operaie muoiono e la colonia si estingue rapidamente a causa dell’interruzione del ricambio generazionale. I maschi e l’ultima nidiata di vespe immature (larve di maschi o ultime femmine ritardatarie) possono sopravvivere sino all’arrivo dell’inverno, periodo che in ogni caso non riescono a superare. Per la carenza di manodopera operaia, le ultime larve deperiscono per inedia, non più curate. Questa è la principale causa, assieme ai resti di cibo in decomposizione, del forte odore di marcio e ammoniaca caratteristico delle colonie mature, che si può avvertire aprendo un nido sviluppato. Odore che presagisce la fine imminente della colonia. Le uniche vespe a sopravvivere all’inverno sono le fondatrici, nate poco dopo i maschi e destinate ad andare in una sorta di letargo, dal quale si risvegliano la primavera successiva, per tentare di fondare nuove colonie.

Del nido, in inverno inoltrato, non resta che l’involucro cartaceo e le cellette abbandonate, spesso saccheggiate da formiche o utilizzate come rifugio invernale da altri insetti come rincoti, coccinelle o qualunque altro insetto che in fase di adulto svernante cerchi rifugio. Non di rado, alcune femmine fecondate possono passare l’inverno sul nido, assieme agli altri animali ospiti.

I siti di ibernazione preferiti per le future regine sono di rado intercapedini di manifattura umana, il nido stesso o più di frequente tronchi d’albero marci o rifugi sottoterra.

NIDO

Costruzione
Il nido è formato da una mistura di polpa di carta creata dalle vespe operaie con parti di alberi o materiale vegetale tagliato con le mandibole, masticati e mischiati con la saliva, oltre a fango e altre derivazioni simili e poi modellati a formare il nido dalle operaie. Questi pezzi non hanno una struttura uniforme, ma sono attaccati tra loro molto saldamente così da costituire uno strato unico. Questo “cemento” è inoltre reso repellente all’acqua e consente alla colonia di sviluppare una barriera contro gli agenti atmosferici esterni. I materiali e le tecniche di costruzione così come i luoghi possono variare a seconda della nidificazione.

Composizione chimica e fisica
Minerali come titanio (Ti), ferro (Fe) e zirconio (Zr) sono comunemente presenti nel suolo e pertanto si ritrovano anche nella composizione del nido del calabrone. Il peso del nido più grande mai trovato era di 80,87 grammi, da vuoto, a dimostrazione del fatto che la struttura si presenta estremamente leggera. Le celle interne sono di norma comprese tra i 4 e i 5 mm di lunghezza e gli 8–9 mm di diametro. Uno studio più approfondito di nidi recuperati in Turchia settentrionale ha evidenziato che ossigeno, carbonio e azoto sono gli elementi principali del nido, mentre sono state trovate tracce di silicio (Si), calcio (Ca), ferro (Fe) e potassio (K), ma non alluminio (Al), magnesio (Mg) o sodio (Na), dimostrando che i calabroni si basano sui materiali che trovano attorno al nido e quindi utilizzano il suolo locale. La percentuale di materiali vegetali è il 23% mentre il 77% è costituito da saliva di calabrone.

RELAZIONI CON L’UOMO

Specie tutelate e protezione
La V. crabro per i motivi esposti più sotto è oggetto di continue distruzioni dei nidi, talvolta necessarie e quindi si presenta come una specie potenzialmente a rischio. Alcuni paesi europei sono giunti a tutelare la specie, come nel caso della Germania dove secondo una legge del 16 febbraio 2005 è proibito attirare, catturare o uccidere una regina o danneggiare o distruggere un nido di calabroni, con il rischio di incorrere in una multa (che varia a secondo del Land) fino a 65 000 euro o 5 anni di pena detentiva. Per far rimuovere un nido occorre ottenere il permesso dell’ente regionale preposto e l’intervento di una ditta specializzata che provvederà a trasferire la colonia in altro luogo.

Danni alle coltivazioni
Come molti altri tipi di vespe, i calabroni possono danneggiare le coltivazioni frutticole, come: ciliegie, pere, mele, prugne e uve. Una colonia di calabroni può compromettere irrimediabilmente l’intera produzione di un melo in poco tempo, spesso escavando solo la parte più matura del frutto per poi passare ad attaccarne un altro.

Problemi associati
I calabroni europei sono onnivori e come tali mangiano diverse altre specie di insetti molti dei quali sono considerati infestanti e quindi in questo senso essi apportano un beneficio a giardini e coltivazioni. Ad ogni modo, essi risultano dannosi nella misura in cui sono soliti nutrirsi anche di api domestiche (che cercano di portare vive nel nido per darle in pasto alle larve) compromettendo la riproduzione della specie, danni alle arnie, la produzione di miele e soprattutto l’impollinazione dei fiori.

Veleno e punture
Il calabrone, pur tendendo a non attaccare naturalmente l’uomo, può rappresentare in molti casi una minaccia concreta. Solo la femmina punge, poiché il maschio è privo di pungiglione. In caso di puntura, l’insetto inietta nel corpo dell’uomo solo una dose minima di veleno che, per quanto risulterebbe fatale per altri insetti, nell’essere umano non comporta particolari problemi, a meno che non si verifichi, a causa di allergia o ipersensibilizzazione pregressa, una pericolosa reazione anafilattica. Una situazione di pericolo si presenta se il numero di punture è superiore a una, a causa del maggiore quantitativo di veleno entrato in circolo.

In tali casi il veleno del calabrone interferisce con il corretto funzionamento delle vie respiratorie, causando affanno o addirittura soffocamento. Nei casi più gravi può rendersi necessaria una tracheotomia. Le reazioni a seguito di punture di calabroni possono rivelarsi mortali.

Normalmente, la sensazione di dolore che si avverte subito dopo la puntura è data essenzialmente dall’infiammazione che il veleno iniettato determina nei primi strati della cute, mentre il gonfiore successivo è dato dalla reazione naturale dell’organismo. Poiché il pungiglione delle vespe non è uncinato come quello delle api è raro che il pungiglione si spezzi e rimanga ancorato nei tessuti, ma se così fosse può essere rimosso agevolmente.

DISINFESTAZIONE, ERADICAZIONE

Nel caso in cui il bilancio tra i benefici della presenza delle vespe crabro (distruzione di insetti nocivi alle colture e all’uomo) e gli svantaggi della medesima (danni alla frutta, predazione eccessiva di api, pericolo per l’uomo) sia sfavorevole alla permanenza dell’insetto in una data area si può procedere al suo contenimento numerico (riservando lo sterminio alle sole specie aliene quali le varianti di velutina). Numerosi i metodi messi a punto dall’esperienza soprattutto degli apicoltori.

Segnalazione e intervento
La soluzione radicale è individuare i nidi e segnalarli alle autorità (vigili del fuoco, assessorati all’agricoltura, all’ambiente, alla salute) che potranno fornire informazioni su come procedere, se in aree pubbliche e a rischio per le persone se ne farà carico l’autorità contattata, se in contesto privato ci si dovrà rivolgere ad una ditta che offre servizi di disinfestazione specializzati. Le istituzioni e associazioni apistiche ovviamente sono concentrate alla eradicazione delle vespe di Cornovaglia.

La cimice marmorata (detta anche cimice asiatica, Halyomorpha halys Stål, 1855) è un insetto parassita della famiglia Pentatomidae (ordine rincoti), originario di Cina, Giappone e Taiwan. È stato accidentalmente introdotto negli Stati Uniti con i primi esemplari osservati nel mese di settembre 1998. H. halys è considerata un insetto dannoso all’agricoltura e dal 2010-11 è diventato un fitofago stabile dei frutteti degli USA.

In Italia il primo esemplare è stato rinvenuto in provincia di Modena nel settembre 2012 e studiato dall’Università di Modena e Reggio Emilia.

DESCRIZIONE
Gli adulti sono lunghi circa 1,7 centimetri e hanno la caratteristica forma a scudo comune anche in altre cimici. Ci sono varie tonalità di bruno sulla parte superiore e sul lato inferiore, con toni di grigio, bianco sporco, nero, rame e macchie di colore bluastro. Altri caratteri di riconoscimento di questa specie comprendono le bande luminose alternate sulle antenne e bande scure alternate sul bordo esterno dell’addome. Le zampe sono marroni con deboli chiazze bianche o strisce. Lo sbocco delle ghiandole odorifere si trova sul lato inferiore del torace, tra la prima e la seconda coppia di zampe, e sulla superficie dorsale dell’addome.

Nei luoghi di origine (Giappone, Cina, penisola coreana e Taiwan) si ha una sola generazione all’anno, mentre nelle zone più favorevoli fino a quattro. Le femmine si accoppiano più volte di seguito e l’accoppiamento dura circa 10 minuti (molto meno rispetto a specie affini). Vengono depositate tra 100 e 500 uova, con una media intorno a 250 uova. Il tempo di sviluppo degli animali adulti dipende dalla temperatura e dalla dieta (in condizioni di laboratorio dura circa 50 giorni). Può essere confusa con Rhaphigaster nebulosa.

BIOLOGIA
H. halys è un insetto infestante altamente polifago che può causare danni estesi alla frutticoltura (soprattutto alle Rosaceae) e all’orticoltura (soprattutto Fabaceae). In Giappone è un fitofago che attacca la soia e i fruttiferi. Negli Stati Uniti infesta, a partire dalla fine di maggio o all’inizio di giugno, una vasta gamma di fruttiferi e ortaggi tra cui pesco, melo, fagiolino, soia, ciliegio, lampone e pero. Si tratta di un insetto che per nutrirsi perfora i tegumenti della pianta ospite con l’apparato boccale modificato; questa modalità di alimentazione comporta, in parte, la formazione di fossette o aree necrotiche sulla superficie esterna dei frutti, la punteggiatura della foglia, la perdita di semi, e l’eventuale trasmissione di fitopatogeni.

H. halys penetra nelle case in autunno con più frequenza rispetto ad altri membri della famiglia. L’insetto sopravvive all’inverno come adulto, riparandosi all’interno di case e altri ripari a partire dalle serate autunnali più fredde, spesso riunendosi a migliaia di individui nei siti di svernamento. Gli adulti possono vivere da diversi mesi a un anno. Una volta all’interno del riparo, vanno in stato di ibernazione e aspettano la fine dell’inverno; tuttavia il calore all’interno della casa spesso li induce a ridiventare attivi, e possono volare maldestramente intorno a lampadari o altre fonti luminose.

CONTROLLO
Sono stati sviluppati appositi feromoni artificiali che possono essere utilizzati come esca per trappole. Poiché gli insetti introducono l’apparato boccale in profondità sotto la superficie dei frutti per nutrirsi, alcuni insetticidi sono inefficaci; inoltre, questi insetti sono altamente mobili, e una nuova popolazione può reinsediarsi rapidamente dopo che la popolazione residente è stata eliminata. Nel caso di infestazione della soia, si è visto che spruzzare solo il perimetro di un campo può essere efficace. A partire dal 2012, le popolazioni dei predatori autoctoni come le vespe e gli uccelli insettivori hanno mostrato segni di aumento numerico essendosi adattate alla nuova fonte di cibo.

La cimice verde europea (Palomena prasina Linnaeus, 1761) è un insetto eterottero della famiglia Pentatomidae.

Specie comune e polifaga, attacca piante erbacee e arboree. È uno dei principali agenti dell’aborto traumatico in cui il guscio si forma normalmente ma il seme è atrofizzato e del cimiciato delle nocciole, tra le maggiori avversità del nocciolo.

DESCRIZIONE
Il colore di Palomena prasina varia dal verde (maggior parte degli individui) al marrone-rossastro. Da adulto, raggiunge in media la lunghezza di 15 mm.

DISTRIBUZIONE ED HABITAT
È una specie comune in gran parte dell’Europa, dalle isole mediterranee fino al sud della Penisola scandinava. In Italia è presente in tutta la penisola e nelle isole maggiori.
Si rinviene su diversi tipi di piante erbacee, arbusti ed alberi, con una spiccata predilezione per Corylus spp. e Quercus spp.

BIOLOGIA
Come gran parte delle cimici, se disturbata emette sostanze maleodoranti, secrete da ghiandole poste sul torace.

La femmina depone fino a 100 uova in piccoli ammassi dalla caratteristica forma esagonale. Dalle uova fuoriescono ninfe dall’aspetto grossolanamente somigliante a quello dell’adulto, eccezion fatta per l’assenza di ali (emimetabolia). Le ninfe passano attraverso 5 stadi pre-immaginali, nell’ultimo dei quali compare un abbozzo di ali. Esse diventano adulte a settembre, ibernandosi a novembre.

DANNI CAUSATI
La cimice verde è molto dannosa per diverse specie di piante erbacee e alberi. Con le sue punture, infatti, causa la morte delle gemme fiorali e il deperimento della pianta che diventa giallastra. Il danno si manifesta sulle foglie e sui frutti ed è causato dalle punture di nutrizione di tutte le forme mobili del fitofago. Le foglie presentano necrosi localizzate e disseccamenti. Sui frutti le punture dell’insetto causano tipiche punteggiature clorotiche che successivamente si necrotizzano. I frutti attaccati dalle cimici assumono uno sgradevole sapore e non possono essere commercializzati. Indirettamente la cimice può trasmettere alle piante, attraverso le ferite lasciate dagli stiletti boccali, alcune malattie secondarie, come la batteriosi.

La cimice dei letti (Cimex lectularius Latreille, 1802), della famiglia Cimicidae, è una specie di insetto ectoparassita ematofago obbligato dell’uomo e di altri animali a sangue caldo.

Fino a pochi anni fa questa specie, parassita dell’uomo, era considerata quasi scomparsa mentre negli ultimi tempi le segnalazioni sono aumentate. Negli USA nel 2002 ci sono state solo due segnalazioni mentre nel 2006 sono arrivate a quota 1200. L’insetto è privo di ali e di giorno si nasconde nei materassi e nelle crepe dei mobili, di notte esce e succhia il sangue di chi dorme. Si ritiene che la sua diffusione sia stata favorita da un graduale depotenziamento degli insetticidi e dall’aumento dei viaggi internazionali.

Non rivestono una particolare importanza in parassitologia se non per le reazioni allergiche che possono provocare in alcuni soggetti dopo la puntura. Infatti, non risulta che trasmetta malattie.

Si pensa che il parassitismo dell’uomo da parte di questo artropode risalga agli albori della specie umana. La cimice dei letti era uno dei più diffusi parassiti dell’uomo fino agli anni ’40 del XX secolo. Da quel momento la sua presenza nel mondo ha subito un inesorabile declino fino a scomparire quasi del tutto. Le cause di ciò non sono ancora state del tutto comprese: sembra che la messa in commercio del DDT abbia apportato in quel momento un contributo decisivo. A partire dagli anni ’90 del XX secolo la cimice dei letti è ricomparsa in molti Paesi e intorno agli 2000 si è nuovamente diffusa in America, in Europa, Australia, Africa e Asia.

Sembra che a favorirne la ricomparsa siano state varie concause, come l’introduzione del riscaldamento centralizzato negli edifici, la globalizzazione, l’aumento dei viaggi nel mondo, e non ultimo una resistenza biologica che questo insetto ha sviluppato nei confronti di varie categorie di biocidi (piretroidi, carbammati, organofosforici, ecc). La sua attività ematofaga determina nell’uomo l’insorgenza di lesioni di tipo strofuloide altamente pruriginose causate da una reazione iperimmune nei confronti di alcune sostanze contenute nella saliva di questo insetto e secrete durante il pasto di sangue.

DESCRIZIONE
L’adulto di colore rosso-brunastro è lungo circa 6 mm e si presenta schiacciato dorso-ventralmente. Ciò rende l’insetto abile nell’infilarsi in ogni più piccolo recesso. La testa è dotata di due occhi composti, un paio di antenne dotate di recettori sensibili al calore e a determinati composti chimici, come l’anidride carbonica. L’apparato boccale è di tipo pungente succhiante. I pezzi boccali si sono adattati e trasformati nel corso dell’evoluzione in un rostro allungato in grado di penetrare la cute dell’ospite e di aspirare il sangue durante il pasto di sangue. Il torace presenta delle caratteristiche espansioni laterali. Dorsalmente sono presenti una coppia di squame cutanee, dette emielitre, che rappresentano delle ali vestigiali. L’addome è costituito da 11 segmenti tenuti insieme da membrane intersegmentali dotate di un notevole grado di stiramento, favorendo durante il pasto di sangue la distensione dell’addome e l’accumulo nell’apparato digerente di una notevole quantità di sangue.[2] Le forme giovanili immature, chiamate neanidi o ninfe, si possono facilmente distinguere dagli adulti per le ridotte dimensioni, un minor grado di sclerotizzazione del tegumento (minore negli stadi giovanili più immaturi), l’assenza degli organi riproduttivi, e altre caratteristiche morfologiche di minore evidenza.

ECOLOGIA
La cimice dei letti è un insetto gregario ad abitudini notturne che durante il giorno si nasconde dalla luce del sole (fototropismo negativo) in anfratti o fessure di ogni tipo, formando aggregazioni di decine, centinaia o migliaia di individui. I siti di annidamento, detti anche focolai di sviluppo, normalmente sono localizzati nei pressi dei luoghi dove sosta l’uomo nelle ore notturne. L’unione degli individui in un focolaio viene mantenuta attraverso l’emissione da parte degli insetti di un “feromone di aggregazione”, costituito da una miscela di 10 molecole chimiche, principalmente di natura aldeidica. Generalmente durante la notte le cimici fuoriescono dai propri nascondigli per pungere l’uomo, che rappresenta il suo ospite d’elezione. Le cimici dei letti sono attive e vitali tra i 15 °C ed i 37 °C. Al di sotto dei 15 °C e al di sopra dei 37 °C lo sviluppo s’interrompe. Negli ambienti infestati le cimici preferiscono rifugiarsi in nascondigli situati nel legno, nei materiali cartacei e nei tessuti. Infestano molto spesso i materassi, in particolare i bordi e le cuciture del materasso, le gambe di appoggio e l’interno di eventuali rotelle di plastica dei letti, le doghe di legno e le molle delle reti. In genere possono essere infestati qualsiasi fessura o crepa delle pareti, i bordi esterni dei tappeti, gli interruttori elettrici e le prese di corrente, le cornici, i quadri, le tendine, ecc. Gli insetti adulti possono sopravvivere, in assenza di un ospite di cui nutrirsi ed in funzione della temperatura ambientale per molto tempo, da alcuni mesi fino ad 1 anno per gli adulti, mentre le neanidi per più di tre mesi. La via principale di diffusione è rappresentata da persone o oggetti venuti in contatto con un ambiente infestato e che veicolano degli esemplari di Cimex lectularius e/o loro uova. Persone che soggiornano in ambienti infestati possono così inconsapevolmente consentire alle cimici di nascondersi durante le ore notturne nelle valigie o nei vestiti, trasportando in seguito gli insetti fino alla propria abitazione o in altri luoghi. Lo scambio di materiale usato può determinare lo spostamento di oggetti contaminati in nuovi ambienti con il serio rischio di diffondere l’infestazione.

CICLO VITALE
La cimice dei letti è un insetto a metamorfosi incompleta. Il ciclo vitale prevede lo stadio di uovo, cinque stadi ninfali e l’adulto. Ogni stadio ninfale svolge attività ematofaga obbligata, necessaria alla muta allo stadio successivo. Gli adulti di entrambi i sessi svolgono anch’essi attività ematofaga obbligata. Il ciclo vitale è per la maggior parte influenzato dalla disponibilità di ospiti e dalla temperatura ambientale. In misura molto minore dall’umidità, visto che gli adulti tollerano ampi intervalli: dal 30 al 70%. La temperatura ottimale si attesta sui 30 °C. In queste condizioni un intero ciclo uovo-adulto si compie in circa 24 giorni. Una femmina adulta si accoppia generalmente dopo ogni pasto di sangue e, con temperature di 26 °C, comincia a deporre circa 2-3 uova al giorno dopo circa 3 giorni. La fertilità viene mantenuta per tutta la vita della femmina. Una femmina può produrre nel corso della propria vita circa 200-300 uova.

AZIONE PATOGENA
Le punture della cimice dei letti esitano in lesioni pruriginose di tipo strofuloide. Le lesioni derivano dal trauma cutaneo associato alla puntura e da una reazione immunitaria di ipersensibilità che può essere sia di tipo immediato che di tipo ritardato. Alcuni soggetti manifestano una sorta di insensibilità alla puntura, non presentando una sintomatologia cutanea evidente. Le lesioni sono localizzate in genere nelle regioni scoperte del corpo: gambe, braccia e viso. In molti casi hanno una distribuzione lineare. Le lesioni compaiono da pochi minuti ad alcune ore dalle punture, a seconda dei soggetti e del tipo di risposta immunitaria e perdurano per due o tre settimane.

Formicidae Latreille, 1809 è una vasta famiglia di insetti imenotteri, comunemente conosciuti con il nome generico di formiche.

Le formiche mostrano la massima diversità nelle zone a clima tropicale, come l’America del Sud, l’Africa e l’Australia orientale ma hanno molte specie anche nelle regioni temperate del pianeta. Le formiche, come molti altri imenotteri, sono insetti eusociali. Nelle loro società, che variano in dimensioni e in organizzazione a seconda delle specie, vi è una classe riproduttiva – costituita dalle regine (femmine fertili) e dai maschi – e una lavorativa, costituita da femmine attere e sterili, dette operaie. Le formiche arrivano a mezzo centimetro di grandezza.

CARATTERISTICHE GENERALI
Morfologia
Come gli altri insetti, le formiche hanno il corpo diviso in capo, torace e addome. Hanno sei zampe, apparato boccale masticatore con robuste mandibole e antenne genicolate. Tra il torace e l’addome le formiche hanno un restringimento derivato dalla modificazione strutturale dei primi due uriti del gastro, nodulare o squamiforme, che prendono il nome di peziolo e post-peziolo.
Il colore più tipico delle formiche è nero, ma ve ne sono molte che variano dal rosso all’arancione al giallo e al verde (Oecophylla smaragdina e Rhytidoponera metallica). Le antenne sono costituite da una parte basale, costituita dallo scapo e dal pedicello, e una flessibile, detta funicolo, costituita da una serie di segmenti il cui numero varia a seconda delle specie.

Aspetto fisico
Le operaie delle formiche hanno dimensioni variabili da 1 a circa 30 mm di Dinomyrmex gigas; di norma le femmine feconde (le cosiddette regine) sono più grandi delle operaie sterili e in alcune specie possono raggiungere anche i 6 cm (Dorylus wilverthi).

Le operaie hanno un capo grosso e robusto, mandibole forti ma meno sviluppate di quelle dei soldati, occhi piccoli, antenne formate da undici o dodici segmenti o anche meno. Dopo i due segmenti del peduncolo addominale, l’addome si ingrossa e al suo apice porta l’aculeo a volte funzionante, mentre in altri casi è atrofizzato (Formicinae, Dolichoderinae). Le operaie e i soldati differiscono perché i secondi hanno un capo molto più grosso. La femmina feconda è più grossa, possiede gli ocelli e le ali che però cadono dopo l’accoppiamento. I maschi sono in genere piccoli, sempre provvisti di ali e hanno occhi e ocelli molto sviluppati; il loro torace è più grande, mentre le tre paia di zampe, comuni a tutti gli insetti, sono piccole. In quasi tutte le specie, le operaie sono prive di ocelli, anche se le regine e i maschi ne sono spesso muniti. L’apparato digerente delle formiche comprende due espansioni a sacco, dette ingluvie e ventriglio. Nel primo sacco vengono accumulate le sostanze alimentari; di queste, solo una piccola parte passa nel ventriglio e viene digerita e assimilata dall’individuo.

Il resto del cibo contenuto nell’ingluvie viene rigurgitato e dato come cibo agli altri componenti della società. Fra gli organi di senso, il più sviluppato è l’olfatto che ha la sua sede nelle antenne e serve alle formiche per percepire le sensazioni più comuni e utili alla vita. Gli occhi non danno sensazioni molto precise. Alla base delle mandibole sboccano i condotti di particolari ghiandole poste nel capo e secernenti una sostanza che, mescolata a legno triturato, forma il cartone utilizzato da alcune specie per costruire il nido. Nell’ultima porzione dell’addome, sboccano le ghiandole del veleno contenente acido formico e altre sostanze tossiche o irritanti, oppure, in altre specie, speciali ghiandole anali secernenti una sostanza odorifera contenente acido butirrico, “iridomirmecina” e altre particolari sostanze odorose e ripugnanti che sono schizzate lontano per difesa o offesa.

In alcune specie sul peduncolo e all’inizio dell’addome, sono posti gli organi stridulanti che, per sfregamento, emettono deboli suoni.

CICLO VITALE
Le uova delle formiche sono prive di involucri protettivi. Le larve sono triangolari, spesso prive di arti e incapaci di compiere movimenti complessi, ma possono contrarsi se minacciate. Le operaie nutrono le larve rigurgitando nella loro bocca piccole gocce di cibo per mezzo della trofallassi, oppure offrendo loro uova trofiche. In alcune specie le larve, munite di mandibole, sono in grado di frantumare da sole la membrana delle uova, mentre in altre sono le stesse operaie che rompono le uova trofiche e le offrono direttamente alle larve. Dal corpo e, in certe specie, da speciali papille attorno alla bocca delle larve, trasudano liquidi particolari e sostanze grasse di cui le operaie vanno ghiotte e di cui si nutrono avidamente. La larva delle formiche secerne un po’ di seta con la quale, quando è matura, si tesse un bozzolo in cui trascorre lo stadio di pupa. Questo bozzolo, per svilupparsi, deve essere generalmente sotterrato dalle operaie. Le uova, le larve e le ninfe sono assistite con gran cura dalle operaie, che le trasportano nelle parti più confortevoli del formicaio a seconda delle necessità del loro sviluppo. La cura della prole costituisce la maggior parte del lavoro che si svolge nel formicaio. Le regine non lavorano e vivono intorno ai 5 anni. Le operaie possono vivere da 1 mese a un anno per la maggior parte delle specie; i maschi, invece, muoiono dopo essersi accoppiati. Le formiche vivono in società che possono essere formate da poche decine oppure molte centinaia di migliaia di unità, fino a qualche milione (supercolonie), ma solo in casi eccezionali, cioè in un territorio disabitato da animali di grandi dimensioni e con una folta vegetazione.

LOTTA ALLE FORMICHE
Non poche formiche sono dannose all’uomo, perché favoriscono la diffusione di insetti dannosi come gli afidi; altre, come le specie di Messor, dette “formiche mietitrici”, rubano dai campi grandi quantità di grano e altri cereali; altre ancora danneggiano le gemme e le foglioline delle piante. La lotta contro le formiche è difficile perché per eliminarle veramente occorre sopprimere le regine, cosa assai difficoltosa perché raramente queste escono all’aperto.

 

Il moscerino è un piccolo insetto appartenente all’ordine dei Ditteri. Il termine fa in genere riferimento a ditteri di dimensioni dell’ordine di pochi millimetri e dalla livrea poco appariscente. La maggior parte dei ditteri comunemente chiamati moscerini fa capo al sottordine dei Nematoceri, ma il termine è comunemente usato anche per fare riferimento a brachiceri di piccole dimensioni e che, nell’aspetto, si distinguono dalle mosche.

Alcuni moscerini hanno apparato boccale di tipo pungente-succhiante e le femmine hanno regime dietetico parzialmente ematofago (es. Ceratopogonidi), altri invece sono incapaci di pungere e si nutrono di sostanze zuccherine (es. Chironomidi).

I moscerini sono gli insetti col più veloce battito delle ali. Un moscerino della famiglia dei Ceratopogonidi, genere Forcipomyia, batte le ali fino alla velocità di 1.000 battiti al secondo. Per confronto, la mosca ha una frequenza del battito alare di circa 200 battiti al secondo.

Drosophila Fallén, 1823, è un genere di insetti della famiglia dei Drosophilidae (Diptera: Schizophora: Ephydroidea). Insetti di dimensioni medio-piccole, sono comunemente chiamati moscerini della frutta, nome comune propriamente attribuito alla specie più conosciuta, Drosophila melanogaster, ma per estensione è generalmente applicato a tutte le specie congeneri, per la maggior parte carpofaghe e attratte dalla frutta.

DESCRIZIONE
Gli studi susseguitisi nel corso di molti decenni hanno condotto, in passato, alla formulazione di chiavi diagnostiche per la determinazione del genere Drosophila, di cui una delle più significative si deve a Wheeler & Takada (1964). Questa chiave è tuttavia insufficiente ai fini della distinzione tassonomica in quanto alcuni caratteri sono da ritenersi plesiomorfici. Più recenti sono le definizioni diagnostiche fornite da Okada (1989) e Grimaldi (1990), ai cui contributi si deve, nell’impianto generale, l’attuale suddivisione tassonomica della famiglia dei Drosophilidae. Le chiavi di Okada e Grimaldi, tuttavia, possono presentare incongruenze a seguito delle ripetute revisioni tassonomiche che coinvolgono un clade parafiletico come Drosophila sensu lato.

Secondo Okada, nell’ambito della tribù dei Drosophilini, il genere Drosophila è morfologicamente affine a Zaprionus, con cui condivide alcune apomorfie non tutte ricorrenti negli altri generi: presenza di setole sugli occhi, peli acrosticali allineati su non più di otto file, setole prescutellari generalmente assenti. I caratteri differenziali che distinguono Drosophila da Zaprionus consistono nell’assenza di fasce longitudinali bianche sul mesoscuto (presenti in Zaprionus) e nella setola orbitale reclinata posteriore più vicina alla proclinata che alla verticale interna.

Grimaldi individua i seguenti caratteri diagnostici per il genere Drosophila:
– presenza, negli occhi, di robuste setole lanceolate e carenate, in numero di tre, alternate agli angoli del perimetro di ogni ommatide;
– processi delle lacinie mascellari, sia il dorsale sia il ventrale, lunghi e sottili;
– carena generalmente presente e marcatamente larga;
– setole sottovibrissali del primo paio lunghe e robuste come le vibrisse. In alcune specie del sottogenere Drosophila, tuttavia, è presente un solo paio di vibrisse, mentre le sottovibrissali sono di evidente minore sviluppo;
– mesoepisterno ventrale con una copertura di peli fra le due setole katepisternali e più in basso rispetto a queste.

DISTRIBUZIONE
Drosophila è un genere cosmopolita, comprendente specie distribuite in tutte le regioni zoogeografiche del pianeta, con un notevole grado di biodiversità nelle regioni tropicali di tutti i continenti. La maggior parte delle Drosophila ha un areale limitato ad una sola ecozona, mentre poche sono le specie cosmopolite o di ampia distribuzione.
In Europa sono segnalate poco più di 41 specie, tutte appartenenti ai sottogeneri Drosophila e Sophophora, con l’eccezione di D. busckii, appartenente a Dorsilopha. Oltre alle specie cosmopolite, buona parte delle drosofile europee hanno un’ampia distribuzione paleartica e sono perciò rappresentate anche in regioni limitrofe extraeuropee (Nordafrica, Medio oriente, Russia asiatica, Asia centrale e regioni temperate dell’Asia orientale).

In Italia è presente solo poco più della metà delle specie europee.

La mosca domestica (Musca domestica Linnaeus, 1758) è un insetto dell’ordine dei Ditteri, appartenente alla famiglia dei Muscidi.

È in grado di riprodursi con estrema facilità sia per la capacità di deporre le uova all’interno di qualsiasi materiale di natura biologica in decomposizione, sia per la velocità con cui le larve raggiungono lo stato di individuo adulto, diventando a loro volta capaci di riprodursi in circa dieci giorni. Durante la sua vita, che in condizioni ottimali di cibo e ambiente può variare da 2 a 4 settimane, è in grado di deporre fino a 1000 uova (fino a 500 alla volta, oppure in gruppi da 150-200 ciascuno ogni 3-4 giorni).

L’insetto adulto usa una proboscide raspante per nutrirsi. I cibi solidi vengono prima cosparsi di saliva per essere sciolti e poi succhiati con la proboscide stessa. Sebbene siano mosche domestiche, generalmente confinate alle abitazioni umane, questi insetti possono volare per alcuni chilometri dal luogo in cui sono nate. Sono attive solo durante le ore diurne e di notte riposano negli angoli delle stanze o sospese al soffitto.

LARVE
La larva della Mosca domestica misura dai 9,5 ai 19,1 millimetri. L’identificazione delle larve usa una classificazione per stadi. Nel primo stadio la larva è lunga 2–5 mm; nel secondo stadio 6–14 mm; nel terzo stadio 15–20 mm. Rispettivamente queste fasi per le mosche domestiche vengono raggiunte in circa 2-3 giorni, 3-4 giorni e 4-6 giorni dalla deposizione delle uova.

EVOLUZIONE
Anche se l’ordine cui appartiene ha origini molto più antiche, la mosca domestica si ipotizza essersi evoluta all’inizio dell’Era cenozoica, circa 65 milioni di anni fa. Si pensa che questa specie abbia avuto origine nella regione paleartica, in particolare nel Medio Oriente. Data la loro stretta relazione commensalistica con la specie umana, le mosche probabilmente devono la loro diffusione su scala mondiale a movimenti di co-migrazione con l’uomo.

RAPPORTI CON L’UOMO
Nei climi più freddi le mosche domestiche sopravvivono solamente se vivono con l’uomo. Hanno la tendenza ad aggregarsi e risultano difficili da cacciare via. Sono capaci di trasportare più di 100 agenti patogeni responsabili di malattie come tifo, colera, salmonellosi, dissenteria bacillare, tubercolosi, antrace, infezioni degli occhi e vermi endoparassiti. Nelle regioni più povere e con scarso livello di igiene le mosche sono tra i principali vettori di malattie. Alcuni ceppi hanno sviluppato resistenza ai più comuni insetticidi.

La mosca domestica si nutre di sostanze liquide o semi-liquide oltre a materiali organici solidi che ha pretrattato con la sua saliva o vomito. A causa della grande quantità di cibo che ingerisce quotidianamente, essa deposita feci in maniera praticamente costante e questo è uno dei fattori che rende questo insetto un vettore di patogeni.

I Lepismidi o pesciolini d’argento (Lepismida) sono un gruppo di piccoli insetti atteri, appartenenti alla sottoclasse Apterygota, ordine Thysanura.

DESCRIZIONE
I Lepismida sono insetti di piccole dimensioni, con corpo lungo e appiattito, rivestito da squame dai colori iridiscenti, grigio-argentei o giallo-dorati. Hanno capo provvisto di occhi piccoli, che possono anche mancare, e privo di ocelli. L’apparato boccale è di tipo masticatore, con mandibole bicondile e palpi mascellari di 5-6 articoli. L’addome è provvisto di stili negli uriti VII-IX o VIII-IX. Il decimo urotergo ricopre l’estremità del corpo.
L’apparato respiratorio è provvisto di 10 paia di stigmi e di trachee anastomizzate.
A differenza dei Machilida, i Lepismidi non sono saltatori, non avendo l’ultimo paio di stili adattato a questa funzione.

HABITAT
Si nutrono di cibi ricchi di zucchero e di amidi, sostanze presenti in tantissimi cibi presenti in ogni casa. Forse non tutti lo sanno, ma queste sostanze si trovano anche nella carta, nel legno, nella colla e in moltissimi tessuti, come lino, seta, cotone e varie fibre sintetiche). Per questo motivo, spesso, i pesciolini d’argento si nascondono dietro un quadro, tra le rilegature dei libri, sotto gli elettrodomestici o nelle fessure. In caso non trovino sostanze zuccherine da mangiare, sono capaci di sopravvivere per molto tempo senza cibo. Nei casi peggiori, vanno infine a rosicchiare indumenti e accessori in tessuti sintetici, lino, cotone, seta o pelle.

Prediligono tutti quegli ambienti dove possono trovare gli alimenti di cui si cibano. Si trovano spesso in cantina perché è un ambiente buio e umido. Riescono ad intrufolarsi in piccole fessure e anfratti di vario tipo, ad esempio dietro i battiscopa. All’interno di casa, in genere, si nascondono sotto mobili ed elettrodomestici, vicino a lavabi e lavandini, oltre che dietro librerie, quadri e scaffali.

RAPPORTO CON L’UOMO
Per fortuna, questi insetti non nuociono in alcun modo all’uomo: non pungono, non irritano la pelle e non sono velenosi. Nonostante ciò, però, sono piuttosto sgradevoli e, per questo, solo l’idea di saperli girare per casa, non è piacevole e ad alcuni può fare addirittura ribrezzo. Senza poi contare il fatto che possono riprodursi dando così vita a vere e proprie colonie.

I sifonatteri (Siphonaptera) o afanitteri (Aphaniptera), noti comunemente come pulci, sono un ordine di insetti privi di ali.

Le pulci sono parassiti esterni ematofagi: si nutrono del sangue di mammiferi e uccelli. In passato si è a lungo ritenuto che le pulci si fossero evolute dai ditteri. È grazie alla loro discendenza che gli esemplari di questo ordine si trovano nella sottoclasse tassonomica degli Pterigoti pur essendo sprovvisti di ali. Tuttavia, elementi morfologici e genetici indicano che le pulci siano discendenti dei mecotteri della famiglia dei boreidi; di conseguenza, potrebbero essere riclassificate in futuro come sottordine dell’ordine Mecoptera, anche alla luce della scoperta di Caurinus tlagu nel 2013, un mecottero somigliante ad una pulce nell’aspetto e nell’abilità di compiere salti. Fra le specie di pulci più comuni si possono citare la Ctenocephalides felis (parassita del gatto), Ctenocephalides canis (parassita del cane), Pulex irritans (parassita dell’uomo), Nosopsyllus fasciatus e Xenopsylla cheopis (parassiti del ratto).

Le pulci vengono spesso confuse con i diversi pidocchi, anch’essi insetti atteri e parassiti dell’uomo e di molti altri mammiferi e uccelli, appartenenti all’ordine dei Siphunculata o anopluri.

MORFOLOGIA
Le pulci sono animali di piccole dimensioni, totalmente atteri (cioè privi di ali). L’esoscheletro è in genere compatto e robusto; Il capo è compresso contro il torace, poco mobile, con antenne tri-articolate molto brevi e apparato boccale pungente-succhiatore; le zampe sono altrettanto robuste, e la coppia posteriore è particolarmente sviluppata e consente alla pulce salti di notevole altezza. Tale azione è data da particolari muscoli che prima flettono le zampe, poi un meccanismo di presa le mantiene flesse finché altri muscoli rilasciano la presa permettendo all’energia accumulata di estendere rapidamente le zampe consentendo il salto.

CICLO DI VITA
Le pulci hanno un ciclo di vita completo che comprende le fasi di uovo, larva, pupa e adulto. La trasformazione da uovo a adulto richiede un tempo variabile da due settimane a otto mesi, in funzione delle condizioni climatiche, dalla disponibilità di cibo e dalla specie.

La femmina depone circa 15-20 uova al giorno (circa 600 nell’arco della sua vita), in genere subito dopo essersi nutrita. Le uova vengono deposte sull’ospite. Possono fare da ospite un grandissimo numero di mammiferi (incluso l’uomo) e di uccelli. Le uova, deposte sulla peluria o su penne e piume, possono facilmente cadere e diffondersi nell’ambiente, specialmente nel luogo dove l’ospite si riposa, dorme o nidifica.

Le uova si schiudono in un tempo compreso fra due giorni e due settimane. Nelle abitazioni umane infestate, le larve possono trovarsi nelle crepe dei pavimenti, sotto i bordi dei tappeti, nei letti; all’aperto, la sabbia è uno degli habitat preferiti.

Le larve sono cieche, e si sviluppano in un arco compreso fra una settimana e diversi mesi, passando attraverso tre stadi larvali. Non succhiano direttamente il sangue; si nutrono delle feci di pulci adulte, o frammenti di pelle, pelo o piume.

La metamorfosi da pupa ad adulto avviene all’interno di un bozzolo setoso tessuto dalla larva, a cui aderiscono frammenti di peluria o altri materiali analoghi. Il processo della metamorfosi dura da cinque a quattordici giorni; le pulci adulte possono uscire subito dal bozzolo o attendere di percepire vibrazioni, pressione, calore o diossido di carbonio, tutti segnali che rivelano la potenziale presenza di una fonte di cibo.

La maggior parte delle pulci passano l’inverno nella fase di larva o pupa. La “stagione delle pulci”, in cui gli adulti sono attivi, è l’estate o l’inizio dell’autunno. Il numero di individui che sopravvivono all’inverno dipende dalla temperatura; il tasso di sopravvivenza è massimo negli inverni più miti. Nelle aree più calde, per esempio equatoriali e tropicali, gli adulti possono essere presenti durante tutto l’arco dell’anno.

IMPORTANZA PATOGENA
L’importanza patogena degli Aphaniptera, pur non potendosi paragonare a quella dei Ditteri, risulta tuttavia notevole.
Nella maggior parte dei casi la pulce dell’uomo (Pulex irritans Linnaeus) è più molesta a causa dei suoi movimenti sulla cute che per le sue punture; provoca al suo ospite solo fastidio (arrossamento cutaneo e prurito); tuttavia, alcune persone e alcuni animali possono soffrire di allergia alla saliva delle pulci, e riportare questi sintomi in forme particolarmente violente. In casi estremi, ripetuti morsi di pulce possono causare anemia nell’animale ospite. L’azione delle pulci penetranti è più impegnativa perché alle lesioni prodotte dal parassita possono aggiungersi complicazioni settiche e gangrenose, artriti, necrosi ossee e tendinee, fistole, caduta di falangi o di dita, ecc.

Le pulci possono anche essere vettori o ospiti intermedi, di virus zoopatogeni, di batteri (Enterobatteriacee del genere Salmonella Lign., come la S. enteritidis (Gärtn.) Castell. et Chalm e la S.typhimurium Loeff; Parvobatteriacee del genere Pasteurella Trev., come la P. pestis Lehm. et Neum. e la P.tularensis (McCoy et Chapin) Berg.; Rickettsiaceae del genere Rickettsia Rocha Lima, come la R. prowazekii Rocha Lima e la R. mooseri Monteiro; di Protozoi, Nematelminti, Platelminti, ecc.; fra le quali è particolarmente pericolosa la Xenopsylla cheopis Rothsch, forma subcosmopolita, ma più frequente nei paesi caldi, che trasmette la peste bubbonica, malattia primaria dei Rosicanti.

Gli araneidi (Araneae Clerck, 1757) sono un ordine di Aracnidi, suddiviso, a novembre 2021, in 129 famiglie che comprendono ben 49 720 specie. I membri dell’ordine vengono comunemente chiamati ragni.

Sono artropodi terrestri provvisti di cheliceri e hanno il corpo suddiviso in due segmenti, cefalotorace e opistosoma, e otto zampe. I due segmenti sono congiunti da un piccolo pedicello di forma cilindrica. Come in tutti gli artropodi, il celoma (cavità del mesoderma per il trasporto dei fluidi), pur essendo molto piccolo, consente il passaggio dell’emolinfa che ossigena e nutre i tessuti e rimuove i prodotti di scarto. L’intestino è così stretto che i ragni non possono mangiare alcun grumo di materiale solido, per quanto piccolo, e sono costretti a rendere liquide le parti interne delle loro prede con vari enzimi digestivi per poi suggerle e nutrirsene.

Con l’eccezione del sottordine più primitivo, quello dei Mesothelae, i ragni hanno il sistema nervoso più centralizzato fra tutti gli artropodi e, come questi, hanno i gangli cefalici fusi in una sola massa all’interno del cefalotorace. Diversamente dalla maggior parte degli artropodi, i ragni non hanno muscoli estensori nel loro corpo; i movimenti delle zampe e del corpo sono ottenuti attraverso variazioni di pressione del loro sistema idraulico. Nella parte terminale dell’addome sono presenti le filiere che estrudono la seta, usata per avvolgere le prede e costruire le ragnatele.

CARATTERI GENERALI
I ragni sono animali predatori, sia di altri ragni, sia di insetti; le specie più grandi arrivano a catturare e nutrirsi anche di lucertole e di piccoli uccelli senza difficoltà. Da vari studi e osservazioni si è scoperto che gli esemplari giovani completano la loro dieta con il nettare, mentre gli esemplari adulti preferiscono integrare con il polline. Nel 2007 è stata descritta la prima specie vegetariana di ragni: si nutre quasi esclusivamente di polline e delle tenere punte delle foglie di alcune acacie.

In varie specie di ragni i cheliceri sono diventati atti a secernere un veleno per immobilizzare le prede, a volte tanto tossico da risultare pericoloso anche per l’uomo. Negli ultimi due decenni si stanno sperimentando piccole dosi di questi veleni a scopo terapeutico o come insetticidi non inquinanti. Buona parte dei ragni cattura le prede intrappolandole in vischiose ragnatele ponendosi in agguato nelle vicinanze per poi iniettare loro il veleno. Le specie che usano questa tattica di caccia sono molto sensibili alla più piccola vibrazione che scuote i fili della ragnatela. D’altro canto, le specie che cacciano all’agguato sono fornite di un’ottima vista, fino a dieci volte più acuta di quella di una libellula.

Alcuni ragni cacciatori hanno particolare abilità e intelligenza nell’adoperare varie tattiche per sopraffare la preda, mostrando anche di saperne imparare di nuove se occorre. Ad esempio alcune specie hanno modificato il loro aspetto prendendo le sembianze esteriori di formiche al punto da essere facilmente confusi con una di loro.

Le ragnatele sono molto variabili in forma, quantità di tela adoperata e grandezza. Sembra che le prime forme a essere adottate siano state quelle orbicolari; le specie che ancora le adoperano sono poche: la maggior parte dei ragni esistenti preferisce estendere la propria tela e renderla quanto più aggrovigliata possibile allo scopo di massimizzare il volume d’aria in cui può imbattersi un insetto.

Nei ragni maschi i pedipalpi (appendici situate sotto o a lato dell’apertura boccale) sono stati modificati a guisa di siringa per iniettare lo sperma nell’apparato genitale femminile. Alcuni di loro devono porre in essere complicati rituali di corteggiamento prima di potersi avvicinare alla femmina per fecondarla, per evitare di essere divorati. I maschi della maggior parte delle specie riescono a evitare questo destino in quanto la femmina consente loro di posizionarsi nelle parti marginali delle ragnatele anche per qualche tempo dopo l’accoppiamento. D’altro canto vi sono maschi di alcune specie che, dopo aver fecondato la femmina, si offrono in pasto a lei, probabilmente per fornire più nutrienti alla prole che nascerà. In varie specie le femmine costruiscono un sacco ovigero setoso dove trovano spazio almeno un centinaio di uova; i giovani, una volta nati, sono comunque incapaci di procurarsi il cibo da soli, fino a quando non hanno compiuto la loro prima muta. In questi casi sono le femmine/madri a sfamare la prole e condividere le prede catturate con essa.

Solo poche specie di ragni hanno un comportamento sociale, cioè costruiscono tele in cooperazione con altri ragni, fino a diverse migliaia; il comportamento sociale è vario: da una semplice tolleranza di vicinato, come nell’aggressiva vedova nera, a una vera e propria caccia coordinata fra più esemplari e successiva suddivisione delle prede catturate. In quanto a longevità, la maggior parte dei ragni non supera i due anni, solo alcuni esemplari di tarantole e vari migalomorfi in cattività sono noti per essere sopravvissuti fino a venticinque anni.

Dallo studio dei reperti fossili rinvenuti, i primi animali capaci di produrre seta compaiono nel Devoniano, circa 386 milioni di anni fa, comunque in essi manca ogni traccia di filiere. I primi ragni fossili veri e propri sono stati rinvenuti in rocce del Carbonifero, databili quindi fra 299 e 318 milioni di anni fa, e sono molto simili agli attuali appartenenti all’ordine Mesothelae. I gruppi principali di ragni moderni, Araneomorphae e Mygalomorphae, fanno la loro comparsa nel Triassico inferiore, all’incirca 200 milioni di anni fa. Solo nei fossili datati da 130 milioni di anni fa in poi si ritrovano anche ragni conservati nell’ambra, aventi una maggiore ricchezza di particolari visibili e analizzabili, soprattutto nei dettagli anatomici. Sono state rinvenute anche ambre con un abbraccio mortale fra un ragno e la sua preda, mentre la sta imbozzolando e altre in cui si sono preservate anche le uova nei sacchi ovigeri.

Rattus (Fischer, 1803) è un genere di roditori della famiglia dei Muridi, conosciuti comunemente con il nome di ratti. Il genere comprende due specie cosmopolite e commensali dell’uomo, il ratto nero e il ratto delle chiaviche. È noto che i ratti resistono a dosi molto elevate di radiazioni, quindi sopravvivono anche alle bombe atomiche.

DESCRIZIONE
Dimensioni
Al genere Rattus appartengono roditori di medie e grandi dimensioni, con lunghezza della testa e del corpo tra 133 e 271 mm, la lunghezza della coda tra 108 e 302 mm e un peso fino a 500 g.

Caratteristiche craniche e dentarie
Il cranio è allungato e presenta un rostro corto e sottile, il restringimento inter-orbitale moderato, le creste sopra-orbitali ben sviluppate che si estendono posteriormente sull’ampia scatola cranica, particolarmente allungata nel ratto delle chiaviche. Le placche e le arcate zigomatiche sono di forma e dimensioni normali. I fori palatali anteriori sono lunghi, le bolle timpaniche variano tra le varie specie e possono essere grandi e rigonfie. Gli incisivi superiori sono lisci e possono essere ortodonti od opistodonti, ovvero con le punte rivolte verso il basso oppure verso l’interno della bocca. I molari hanno la corona bassa, il primo possiede cinque radici ed è lungo quanto gli altri due, con il terzo ridotto. Tutti hanno cuspidi appuntite.

Aspetto
Il corpo è solitamente compatto. La pelliccia è ruvida, spesso cosparsa di peli semi-spinosi. I piedi sono lunghi e sottili, tipici delle specie terricole. Le tre dita centrali sono uguali tra loro in lunghezza, il quinto raggiunge la base del quarto, mentre l’alluce è solitamente più corto del quinto dito. I cuscinetti sono 5 sul palmo delle mani e 6 sulle piante dei piedi. Le zampe anteriori hanno il terzo ed il quarto dito più lunghi. La coda è generalmente più lunga della testa e del corpo, scarsamente ricoperta di peli e rivestita di scaglie disposte ad anelli sovrapposti. Le orecchie sono di proporzioni normali. Il numero di mammelle varia notevolmente tra le specie e va da un minimo di solo due paia inguinali nei membri del R.xanthurus species Group, fino ad un massimo di sei paia nei R.rattus species Group, R.norvegicus species Group e R.fuscipes species Group.

DISTRIBUZIONE
Originario dell’Ecozona paleartica e dell’Ecozona orientale, si è diffuso nel resto del mondo in momenti diversi; in particolare il Ratto delle chiaviche giunse in Europa solo nel tardo Medioevo (a dispetto del nome scientifico non sembra fosse presente in Norvegia prima della metà del XVIII secolo). Successivamente popolò le Americhe, l’Africa e l’Oceania viaggiando a bordo delle navi dei coloni e degli esploratori. Le specie endemiche sono invece limitate alle isole dell’Indonesia, delle Filippine e di alcune isole dell’Oceano Indiano ed alcune di esse sono a rischio di estinzione. Non esistono specie native africane ed europee.

CONVIVENZA CON L’UOMO
La convivenza dei ratti con l’uomo può essere molto problematica. Il ratto è un animale estremamente prolifico, e in assenza di predatori può giungere rapidamente alla sovrappopolazione. Essendo un onnivoro, e opportunista nella ricerca di cibo, può causare danni alle coltivazioni, a riserve alimentari come magazzini o dispense; ma può anche creare danni di altri generi (per esempio, è noto che i ratti spesso danneggiano i cavi elettrici masticandoli). Da questo punto di vista, i ratti non si distinguono in modo sostanziale da altri roditori.

Nella percezione comune, il principale pericolo associato ai ratti è legato all’igiene. Un ratto selvatico, che viva nelle fogne, può essere affetto da oltre 30 malattie trasmissibili all’uomo, inclusi il tifo e la peste bubbonica, e la febbre da morso di ratto. Si ritiene comunemente (sebbene la questione sia talvolta messa in discussione) che l’epidemia della Peste Nera, che devastò l’Europa nel XIV secolo, fosse dovuta al micro-organismo Yersinia pestis, portato dalla pulce Xenopsylla cheopis, a sua volta parassita del Rattus rattus. I ratti selvatici moderni possono portare la leptospirosi (sebbene la trasmissione della malattia all’uomo richieda circostanze molto specifiche). L’idea che i ratti possano “contaminare” l’uomo o l’ambiente è anche legata al fatto che, in contesti urbani e suburbani, sono spesso abitatori di fognature e depositi di rifiuti. A dispetto di questi luoghi comuni, il ratto, in natura, è generalmente un animale estremamente robusto e sano, molto pulito se vive in un ambiente che lo permetta (e dunque lontano dalle fogne).

Sia il Rattus norvegicus che il Rattus rattus (meno diffuso) sono stati addomesticati e sono animali da compagnia piuttosto diffusi. Come nel caso dei cani o dei gatti, i ratti domestici si sono differenziati nel tempo in numerose razze con caratteristiche morfologiche differenti. Le razze principali sono il manx (ratto senza coda), il satin (dal pelo lucente e vellutato), l’hairless (ratto nudo, senza pelo, usato per testare cosmetici), i dumbo (con le orecchie di dimensioni maggiori). I colori sono molto vari e vanno dal nero al marrone al bianco passando per i pezzati, i siamesi e gli albini.

Il ratto domestico è noto per la sua intelligenza e socievolezza, e risulta essere un animale estremamente pulito, che può essere agevolmente addomesticato e persino addestrato.

I ratti domestici vengono anche spesso utilizzati per nutrire serpenti tenuti in cattività (soprattutto boidi).

Gli scorpioni (Scorpiones C. L. Koch, 1837) sono un ordine di artropodi velenosi della classe degli aracnidi. Ci sono circa duemila specie di scorpioni nel mondo, caratterizzati da un corpo allungato e una coda segmentata che termina con un pungiglione da cui viene iniettato il veleno. È noto che gli scorpioni resistono a dosi molto elevate di radiazioni, quindi sopravvivono anche alle bombe atomiche.

DESCRIZIONE
Morfologia
Uno scorpione di colore nero illuminato da una lampada di Wood
Come aracnidi, gli scorpioni hanno vicino alla bocca degli organi chiamati cheliceri, un paio di pedipalpi, e quattro paia di zampe. I pedipalpi, a forma di tenaglia, sono usati principalmente per catturare le prede e per la difesa e sono ricoperti di diversi tipi di peli sensoriali. Il corpo è diviso in due zone principali, il cefalotorace e l’addome. Il cefalotorace è coperto da un carapace, o guscio della testa, che ha di solito un paio di occhi mediani e da due a cinque paia di occhi laterali nelle zone periferiche della testa; alcuni scorpioni di caverna sono privi di occhi.

L’addome consiste di dodici segmenti distinti, di cui gli ultimi cinque formano ciò che viene comunemente chiamata “coda”. Al termine dell’addome c’è il telson, o pigidio, che ospita una struttura a forma di bulbo che contiene le ghiandole velenifere e un aculeo incurvato per iniettare il veleno.

Nel lato inferiore lo scorpione ha un paio di organi sensoriali unici chiamati pettini; nel maschio sono solitamente più grandi e hanno più “denti”, si suppone rilevino la conformazione del terreno su cui camminano e fungano da chemiocettori per individuare feromoni della propria specie di scorpione.

Dimensioni
Gli scorpioni hanno tipicamente lunghezze di qualche centimetro. Lo scorpione sudafricano “lungacoda” (Hadogenes troglodytes) supera la lunghezza di 20 cm ed è probabilmente il più lungo scorpione vivente del mondo, mentre al secondo posto si colloca Pandinus imperator, che raggiunge lunghezze intorno a 18–20 cm. Il più piccolo è probabilmente Microtityus fundora, lungo appena 12 mm. Tra gli scorpioni fossili, se ne annoverano alcuni lunghi fino a circa un metro (genere Brontoscorpio).

Curiosità
Particolarità degli scorpioni è quella di diventare luminescenti, se esposti ad alcune frequenze di ultravioletti.

DISTRIBUZIONE E HABITAT
Comunemente si pensa agli scorpioni come animali da deserto, invece vivono anche in molti altri paesaggi come praterie e savane, foreste caduche, foreste pluviali e caverne.
Sono stati trovati scorpioni sotto rocce coperte di neve a oltre 3600 m di altitudine nelle Ande sudamericane e nell’Himalaya, in Asia.

I tabanidi o tafàni (Tabanidae Latreille, 1802) sono una famiglia cosmopolita di insetti dell’ordine dei Ditteri (Brachycera: Tabanomorpha). Tradizionalmente inclusi nel raggruppamento degli Orthorrhapha o Brachiceri inferiori, rappresentano una delle famiglie più importanti per numero di specie, diffusione e, soprattutto, per la ricorrente ematofagia delle femmine e le implicazioni di carattere sanitario, medico e veterinario. Per questo motivo, i tafani rientrano fra i ditteri più studiati e più conosciuti, sia nella biologia, sia nella sistematica. Vi sono comprese circa 4.400 specie descritte.

I tafani sono conosciuti in inglese con il nome comune di horse flies (“mosche cavalline”). Il nome “mosca cavallina” ricorre talvolta anche nell’italiano, ma il suo uso è alquanto ambiguo in quanto è usato per indicare anche altri brachiceri ematofagi, in genere la Hippobosca equina oppure la Stomoxys calcitrans.

DESCRIZIONE
Apparentemente simili ai comuni muscoidi, in realtà differiscono da questi per molteplici caratteri. La morfologia dei tafani è infatti caratterizzata dalla presenza di caratteri tipicamente primitivi che risaltano, più o meno evidenti, a un esame più attento. Bisogna specificare che sono attratti dal calore poiché hanno degli occhi termici, perciò l’unico modo efficace per combatterli è l’uso della trappola per tafani.

Adulto
L’adulto dei tabanidi è un insetto di medie o grandi dimensioni, con corpo robusto, lungo da 5 a 30 mm. Il tegumento è generalmente rivestito da una peluria, ma non presenta setole sviluppate. Le livree sono in genere poco appariscenti, con colorazioni variabili dal nero al grigio al bruno al giallastro. Come nella generalità dei Tabanomorpha, sono caratterizzati da un dimorfismo sessuale che si evidenzia principalmente nella conformazione degli occhi. Un altro elemento di differenziazione nella morfologia dei sessi, ricorrente ma non esclusivo di questa famiglia, è la conformazione dell’apparato boccale, adattato all’ematofagia nella femmina.

Il capo è largo e di forma semisferica, oloptico nel maschio e dicoptico nella femmina. Gli occhi composti sono ben sviluppati in entrambi i sessi, spesso iridescenti con pigmentazioni zonali distinte. Gli ocelli possono essere presenti, in numero di tre, oppure assenti o rudimentali. Le antenne sono morfologicamente riconducibili al tipo aristato, ma hanno la struttura primitiva tipica della generalità dei Tabanomorpha: il flagello presenta il primo flagellomero (terzo articolo antennale) morfologicamente distinto, generalmente più grande rispetto agli altri antennomeri, sormontato all’apice da uno stilo segmentato composto da 2-8 articoli a forma di anello e progressivamente più sottili.

L’apparato boccale è breve e robusto, di tipo perforante-succhiante nella femmina delle specie ematofaghe e succhiante non perforante nel maschio di tutte le specie e nelle femmine non ematofaghe. L’apparato boccale pungente ha la conformazione di un breve pungiglione atto a lacerare, più che a perforare, la cute dell’ospite e succhiarne il sangue. Il labbro superiore è conformato a doccia aperta ventralmente (lato orale), rivestita dall’epifaringe. Le mandibole e le lacinie mascellari sono trasformate in stiletti conformati a lama tagliente, i palpi mascellari sono composti da 1-2 articoli; sono ben sviluppati, allungati e ingrossati, ma non partecipano alla funzione perforante-succhiante. La prefaringe è anch’essa stilettiforme ed è percorsa al suo interno dal canale salivare. Il labbro inferiore è più sviluppato in lunghezza, è di consistenza carnosa, è conformato a doccia, aperta anteriormente, e termina all’estremità distale con due espansioni carnose (labelli). In posizione di riposo, tutte le appendici boccali sono alloggiate nella doccia del labbro inferiore, con l’eccezione dei palpi mascellari che sono posizionati anteriormente rispetto alla proboscide. I maschi hanno mandibole non funzionali e non sono perciò in grado di pungere.

HABITAT E DIFFUSIONE
I tabanidi sono in generale associati ad ambienti rurali o forestali e rifuggono dagli spazi chiusi. La maggiore concentrazione dei tafani ematofagi si rileva in località che ospitano elevate densità di popolazione dei potenziali ospiti. Le specie di maggiore interesse sanitario sono perciò più frequenti in zone ad alta vocazione zootecnica, soprattutto con animali allevati in stabulazione libera oppure al pascolo o allo stato brado, oppure presso parchi e riserve naturali che ospitano popolazioni di cervidi e altri ungulati.

Famiglia cosmopolita, il suo areale comprende anche le isole più remote di tutte le regioni zoogeografiche della Terra, con l’eccezione dell’Antartide, e si estende oltre il 60° di latitudine, fino al limite superiore della taiga. La maggiore concentrazione di specie si ha nelle regioni tropicali.

In Europa la famiglia è rappresentata da poco più di 200 specie ripartite fra 13 generi.

IMPORTANZA ECONOMICA E MEDICO-SANITARIA
La dannosità dei Tabanidae ematofagi si manifesta in tre aspetti:
– Danni economici causati al settore zootecnico
– Disagi e malessere causati alle persone e agli animali domestici
– Trasmissione di agenti patogeni.

I danni economici sono dovuti alla riduzione delle produzioni zootecniche a causa dello stress causato sugli animali domestici attaccati sistematicamente dai tafani. L’accanimento persistente in parti del corpo non raggiungibili causano stress, riduzione dell’appetenza, indebolimento per il prelievo di sangue, trasmissione di infezioni più o meno gravi. Anche senza l’insorgere di malattie infettive, l’attività dei tafani porta alla riduzione dell’indice di conversione degli alimenti, del peso vivo, della secrezione lattea, con conseguenti perdite di produzione vendibile in termini di carne e latte.

Il disagio e il malessere sono dovuti al senso di fastidio provocato dall’insistenza con cui i tafani, anche quando sono isolati, si accaniscono sulla vittima. Al disagio si aggiunge anche il danno diretto provocato dalle punture: la puntura dei tafani è infatti dolorosa e provoca reazioni allergiche che si manifestano con irritazioni cutanee estese e prolungate nel tempo sotto forma di arrossamenti, gonfiori e prurito. Nei soggetti più sensibili, le punture dei tafani possono provocare shock anafilattico.

La possibilità di trasmissione di agenti patogeni rappresenta l’aspetto più estremo della dannosità dei tafani dal punto di vista medico e veterinario. Diversi tabanidi ematofagi sono potenziali vettori di virus, batteri, protozoi, nematodi, senza una particolare specificità biologica. Il motivo risiede nell’etologia dei tafani e nel meccanismo di trasmissione. La puntura dei tafani è molto dolorosa e quindi richiama subito l’attenzione della vittima, la cui reazione può interrompere l’alimentazione dell’insetto e costringerlo a spostarsi in un altro punto o su un altro ospite. Per completare un pasto, un tafano deve in genere praticare più punture e, spesso, su ospiti diversi, a breve distanza di tempo. Questo comportamento facilita la trasmissione accidentale e meccanica di agenti patogeni con un meccanismo analogo a quello della trasmissione dei virus stylet-borne da parte degli afidi sulle piante: il patogeno non instaura alcuna relazione biologica con il vettore, è prelevato per contatto accidentale dell’apparato boccale con il sangue di un ospite infetto e trasmesso subito dopo con la puntura su un ospite sano.

Tarma, o tignola, è il nome comunemente utilizzato per indicare alcune specie di lepidotteri appartenenti alla famiglia Tineidae, le cui larve si nutrono di tessuti come lana, seta e anche cotone, oltre ad altre tipologie di sostanze contenenti cheratina. Si nutre talvolta anche di capelli umani e può rifugiarsi negli armadi e cibarsi dei vestiti presenti.

VARIETA’ E CARATTERISTICHE
– La tignola dei crini (Tineola bisselliella) è considerata la varietà più comune. La sua larva è nuda e fila un poco di seta intorno alle sue provviste di cibo.
– La tignola delle pellicce (Tinea pellionella) è meno comune della prima. Questo tipo di tarma è più piccola, e misura tra 3 e 6 millimetri. È di colore giallo o marrone grigiastro, con macchie marroni più scure sul primo paio di ali, le larve vivono in un involucro fatto con frammenti di seta e tessuti.
– La tignola dei tappeti (Trichophaga tapetzella) è un’infestante che vive nelle stesse aree. Essa completa il proprio ciclo vitale in un anno, ma la velocità di sviluppo dipende da temperatura, umidità e disponibilità di cibo. La sua apertura alare è di 14–18 mm. La larva vive in una galleria tortuosa, costruita con frammenti di tappeti e altri tessuti, tenuti insieme da bave seriche.

NUTRIMENTO
Il bruco (larva) della tarma è noto per essere un grave infestante. Può trarre il suo nutrimento non solo dai tessuti – in particolare lana – ma anche, come la maggior parte dei bruchi, da molte altre fonti. Le tarme si nutrono di tessuti e fibre naturali; hanno la capacità di trasformare la cheratina, proteina presente in capelli, peli e lana, in cibo. Le tarme preferiscono i tessuti sporchi e sono particolarmente attratte dai tappeti e dai vestiti che contengono sudore umano e residui di altri liquidi. Sono attratte in questi casi non tanto dal cibo ma dall’umidità. Le larve non bevono acqua, di conseguenza deve contenerne il loro cibo.

CICLO VITALE
Dalle uova escono larve, che cominciano a nutrirsi, si impupano ed escono sotto forma di adulti. Gli adulti non mangiano: i maschi adulti cercano le femmine e le femmine adulte cercano posti dove deporre le uova. Una volta terminata la riproduzione, muoiono. Contrariamente a quello che comunemente si crede, le tarme adulte non mangiano né causano danni a vestiti o tessuti. Sono le larve le uniche responsabili di questo, poiché passano la loro vita a mangiare e alla ricerca di cibo.

Sia adulti sia larve preferiscono luoghi scarsamente illuminati, mentre le altre farfalle sono attratte dalla luce. Le tarme preferiscono aree buie o in penombra. Se le larve vengono a trovarsi in luoghi illuminati, cercheranno di spostarsi sotto i mobili o i tappeti. I tappeti tessuti a mano sono tra le loro prede preferite, per la facilità con cui possono nascondersi nella loro parte inferiore, e da lì fare i loro danni. Si infilano anche negli zoccolini ai bordi delle stanze in cerca di aree buie dove poter trovare cibo.

Preferiscono ambienti umidi, ma in condizioni di scarsa umidità si sviluppano lentamente. Queste specie di tarme sono piccole falene i cui adulti crescono fino a 2 cm. Le loro uova sono piccole, in genere lunghe meno di 1 mm e scarsamente visibili. Una femmina può deporre centinaia di uova nella sua vita; le uova vengono deposte in luoghi attentamente scelti per le migliori possibilità di sopravvivenza. Le uova sono attaccate con una sostanza simile alla colla e possono essere piuttosto difficili da rimuovere. Dopo la schiusa delle uova, le larve cercano immediatamente cibo. Le larve possono mangiare il cibo necessario in meno di due mesi, ma se le condizioni ambientali non sono favorevoli, si ciberanno ad intermittenza per un tempo più lungo, fino a due anni. Ogni larva si tesse un bozzolo in cui si trasforma in un adulto. Le larve rimangono in questi bozzoli tra uno e due mesi, poi escono come adulti, pronte ad accoppiarsi e a deporre le uova.

 

Il topolino comune (Mus musculus, Linnaeus, 1758) è un piccolo mammifero roditore della famiglia dei Muridi. Viene anche chiamato topo domestico, per differenziarlo dal topo selvatico (Apodemus sylvaticus) e dal topo campagnolo (Microtus arvalis).

Si tratta della specie di gran lunga più diffusa del genere Mus, appartenente alla famiglia dei Muridi e rappresentato nel mondo da una quarantina di specie: il topo domestico si può infatti trovare comunemente in quasi tutti i paesi del mondo, spesso al fianco degli umani, che involontariamente gli procurano vitto ed alloggio, ma non sempre in armonia con loro, in quanto i topi possono arrecare danni anche ingenti alle colture ed alle dispense di cibo, oltre a rendersi vettori di una serie di malattie, come la leptospirosi. A livello sanitario alimentare è considerato uno dei principali vettori della contaminazione poiché, oltre ad essere presente in quasi tutto il globo, ha la particolare capacità di disarticolare le proprie ossa in modo da passare attraverso spazi più piccoli di quanto gli sarebbe possibile altrimenti, per poi ricomporre la propria struttura ossea originale una volta superato l’ostacolo; in questo modo riescono a passare anche nelle piccole fessure sotto le porte. Questa loro abilità li rende uno dei principali pericoli da tenere sotto controllo nel settore alimentare, il quale è messo in atto attraverso il sistema HACCP.

DISTRIBUZIONE
Probabilmente originaria dell’Asia centrale, la specie si è diffusa praticamente in tutto il mondo, al fianco dell’uomo, tramite i commerci via terra e mare.

Specie estremamente adattabile e spiccatamente sinantropa, il topo vive praticamente in qualsiasi luogo che gli offra un recesso in cui potersi nascondere e sfamarsi. Lo si trova perciò in ambienti urbani e suburbani, dove vive a qualsiasi altitudine, mentre è una presenza piuttosto rara nelle aree rurali in quota e negli ambienti boschivi. In generale, il topo manca nei luoghi dove altri animali gli fanno concorrenza, poiché non è molto efficiente come specie antagonista. Tuttavia, in alcune aree di nuova colonizzazione (come Australia e Nuova Zelanda) i topi possono convivere senza eccessivi problemi con altre specie di roditore con abitudini similari. È inserito nell’elenco delle 100 tra le specie invasive più dannose al mondo.

BIOLOGIA
Si tratta di animali attivi perlopiù dopo il tramonto. Durante la notte si tengono ben lontani dalle fonti di luce violenta. Durante il giorno, i topi riposano in tane poste in luoghi riparati e foderati con vari materiali, come cartone, stoffa ed erba. Il topo non va in letargo, a differenza di molti altri roditori: esso si adatta infatti molto bene ad ambienti freddi (purché vi sia disponibilità di cibo), al punto che se ne trovano popolazioni stabili anche all’interno di celle frigorifere.

Il topo è un animale socievole con gli animali della sua stessa specie, tende a riconoscere i suoi simili in base alla costituzione genetica, agevolato dal fatto che i geni inseriti nel complesso di istocompatibilità sono decisivi sull’odore emesso dal corpo del topo. Quindi i topi con lo stesso odore, tendenzialmente, sono appartenenti alla stessa famiglia. I ricercatori della Università della Florida hanno scoperto che le femmine cercano di accoppiarsi con maschi aventi odori diversi dal loro e tendono a costituire nidi in comune con femmine aventi lo stesso odore, quindi con eventuali sorelle. In ogni caso, i maschi sono territoriali e tendono a definire un proprio spazio all’interno del quale dominano su varie femmine e cuccioli. Dei maschi dominanti tenuti in uno spazio angusto come una gabbia, anche se cresciuti insieme e vissuti l’uno nei pressi dell’altro (ad esempio in territori limitrofi), non tarderanno a dare segnali di aggressività e a cominciare a combattere fra loro. Per segnalare la propria presenza ed evitare quindi episodi di intolleranza, i topi si affidano a segnali olfattivi, quali principalmente la marcatura del proprio territorio con urina e feci. Queste ultime, lunghe circa 3 mm e di colore nero sono il segnale visibile anche all’occhio umano della presenza di topi nell’ambiente. L’urina, in particolare quella dei maschi, ha un forte odore dovuto alla presenza di numerosi composti chimici e di feromoni.

Il topo si muove sulle quattro zampe con passo veloce, che copre all’incirca 4,5 cm. I topi sono in grado di compiere salti di una quarantina di centimetri di lunghezza. Quando tuttavia l’animale è impegnato a mangiare, combattere od orientarsi in un territorio sconosciuto, non è infrequente che si erga sulle zampe posteriori, utilizzando la coda per bilanciarsi. La coda viene utilizzata per tenersi in equilibrio anche durante il salto e la corsa.

RAPPORTI CON L’UOMO
La storia dei topi è da sempre stata indissolubilmente legata a quella dell’uomo. Originari dell’Asia[16], la loro presenza è tuttavia attestata nel bacino del Mediterraneo già nell’8000 a.C., anche se essi tardarono a diffondersi nel resto d’Europa, dove li si trova solo a partire dal 1000 a.C. Successivamente, grazie ai commerci e alle campagne militari, il topo ha esteso il proprio areale pressoché a qualsiasi parte del globo, anche sulle isole più remote.
Proprio grazie ai topi, si è potuta tracciare una mappa dei primi spostamenti effettuati dagli uomini e rimasti sconosciuti in quanto svoltisi in periodi in cui non si conosceva ancora la scrittura. In base a esami filogenetici delle popolazioni di topo danesi e di quelle dell’isola di Madera, nell’Oceano Atlantico, è emerso un antico e insospettabile legame fra queste, segno di un’antica presenza umana nella zona.

Il topo non è però sempre un coinquilino innocuo. Spesso, infatti, pur rivelandosi assai meno dannosi rispetto ai ratti, causa danni ingenti alle riserve di cibo e trasmette varie malattie. Si ritiene che proprio per tenere lontani questi roditori l’uomo abbia dato il via all’addomesticamento del gatto.
Nelle aree in cui si è stabilito, inoltre, spesso il topo ha prosperato a discapito delle specie già presenti, divenendo in alcuni casi un vero e proprio flagello.

Nonostante ciò, il topo è stato anche tenuto in cattività come animale domestico, già a partire dal 1100 a.C. si hanno notizie di topolini domestici in Cina. Attualmente, si tende a selezionare i topi domestici in tre lineamenti separati:

– i topi “da compagnia”, selezionati per la varietà di colori e fogge del pelo, oltre che per la mitezza del temperamento;
– i topi da utilizzare come cibo vivo per altri animali tenuti in cattività, fra cui varie specie di rettili ed artropodi. Generalmente questi topi sono monocromatici (se non albini) e dal temperamento mite, poiché in caso contrario potrebbero ferire anche seriamente gli animali a cui sono destinati come preda;

I topi selezionati come cavie da laboratorio. I topi, infatti, sono organismi modello. Grazie alla facilità e velocità con la quale si riproducono, alle piccole dimensioni, al ciclo vitale molto veloce ed alla frugalità, si dimostrano utili nello studio di numerose discipline (oncologia, embriologia, genetica, tossicologia, farmacologia etc.), tanto più che essi presentano una forte omologia con l’uomo.
Il genoma del topo, infatti, venne sequenziato completamente verso la fine del 2002: la sua parte aploide misura circa 3000 megabasi (più o meno come quella umana) ed è distribuita su 20 cromosomi. Tuttavia, è difficile fare una conta attendibile dei geni contenuti nel genoma del topo: una stima recente (che poi è quella attualmente accettata dalla maggior parte degli studiosi) parla di 23.786 geni, contro i 23.686 dell’uomo. Virtualmente, ciascun gene di topo trova un omologo nel genoma umano, il che permette di effettuare esperimenti su di essi. La sperimentazione sui topi, come quella sugli altri animali, è tuttavia contestata da pochi ricercatori che la ritengono un errore metodologico e dai sostenitori dei diritti animali.

Da un articolo pubblicato nel 2011 su Nature, risulta che la quasi totalità della comunità scientifica (92%) è comunque d’accordo sull’indispensabile ruolo che ha la sperimentazione animale nella ricerca biomedica e pura, seppure sperando che in un futuro prossimo questa possa finalmente essere sostituita con altri metodi, ora ancora inesistenti, mentre solo una netta minoranza (3%) degli scienziati si dice contraria alla sperimentazione animale.

I Vespidi (Vespidae Latreille, 1802) sono una famiglia di insetti dell’ordine degli Imenotteri, comunemente noti come vespe.

DESCRIZIONE
Lunghe da 1 a 5 cm, le specie dei Vespidi hanno corpo bruno o nero a strisce gialle, di tinte diverse e vivaci in quelle di paesi tropicali (colorazioni aposematiche).

Le vespe comunemente dette (generalmente specie appartenenti alle sottofamiglie Vespinae e Polistinae) sono insetti sociali: le loro società comprendono femmine sterili, operaie, ed una o più femmine fertili dette regine. I maschi appaiono solo nel periodo riproduttivo.

Nell’ordine degli Imenotteri si riscontrano molti altri esempi di socialità più o meno evoluta: il livello di socialità delle vespe, anche se spesso complesso, è meno “specializzato” di quello delle api e di molte specie di formiche che rappresentano gli esempi evolutivi più alti della socialità fra gli insetti. La socialità è apparsa negli imenotteri diverse volte durante la storia evolutiva dell’ordine. Probabilmente questa particolarità è data da una caratteristica genetica per la quale tutti i maschi sono di tipo aploide, mentre le femmine sono tutte di tipo diploide. Secondo un calcolo piuttosto complesso le sorelle fra loro sarebbero geneticamente simili per il 75% mentre condividerebbero solo il 50% del patrimonio genetico con le madri. Secondo alcuni studiosi le femmine sarebbero perciò portate ad aiutare la madre a generare sorelle invece di dedicarsi a generare prole propria.

I nidi possono essere più o meno complessi e sempre costituiti di un materiale simile al cartone che viene creato impastando del legno con la saliva (da qui il soprannome di vespe cartonaie). Sono posti a seconda della specie su rami, rocce, nelle cavità dei tronchi oppure sottoterra o ancora in manufatti antropici come camini, sottotetti, l’interno delle travi di metallo, verande, serre, vetture abbandonate ecc. e sono divisi in cellette esagonali con apertura inferiore o laterale. Il numero di componenti di una società può andare da alcune decine (è il caso ad esempio del Polistes gallicus diffuso in tutta l’Europa meridionale) a più di 100.000 individui come nel caso di certe specie tropicali.

Nido di vespa cartonaia (Polistes dominulus, riconoscibile per via delle guance gialle e per l’ultimo sternite anch’esso giallo), all’interno di alcune celle sono visibili delle larve
Gli adulti delle vespe si cibano del nettare dei fiori ma predano piccoli insetti per integrare la dieta delle larve che allevano nel nido. Le vespe producono anche piccole quantità di miele che usano sia per nutrire le larve che per rapporti sociali attraverso trofallassi, nonché come scorte di glucidi.

Le femmine sono dotate di un aculeo velenoso che utilizzano esclusivamente per difesa, la cui puntura è dolorosa, in alcuni casi pericolosa perché potenzialmente in grado di scatenare forme allergiche. In tal senso, la vespa più pericolosa è spesso considerata il calabrone, nonostante l’aggressività pari o anche molto minore rispetto ad altre specie.

Fra le varie specie di Vespidae ne esistono alcune con un comportamento da parassita sociale. Ad esempio, all’interno del genere Polistes, le femmine delle varie specie del sottogenere Sulcopolistes hanno l’abitudine di penetrare in un nido già esistente in fase di fondazione, sopprimerne la regina, sottomettere le operaie che nasceranno e cominciare quindi a deporre le loro uova nelle celle libere del nido. Da quel momento le operaie iniziano a nutrire e curare le larve del parassita. Le vespe della specie parassita sono sempre tutte feconde e non operano alcuna attività nel nido. Si tratta di maschi e femmine riproduttrici, infatti la casta operaia in questi parassiti sociali obbligati è andata persa con l’evoluzione. Sono documentati anche casi di parassitismo sociale non obbligato e occasionale, come per Polistes nimpha nei confronti di Polistes dominula.

Il termine comune vespa indica genericamente anche specie appartenenti a famiglie con comportamento solitario, quali gli Sphecidae, i Pompilidae, gli Scoliidae.

Le zanzare (Culicidae Meigen, 1818) sono una famiglia di insetti dell’ordine dei Ditteri (Nematocera: Culicomorpha). Questa famiglia, che conta circa 3540 specie, costituisce il gruppo più numeroso della superfamiglia dei Culicoidea, che a sua volta comprende insetti morfologicamente simili ai Culicidi ma, ad eccezione dei Corethrellidae, incapaci di pungere.

Caratteristica generale propria dei Culicidi è la capacità del particolare apparato boccale, presente esclusivamente nelle femmine, che consente loro di pungere altri animali e prelevarne i fluidi vitali, ricchi di proteine necessarie per il completamento della maturazione delle uova. La presenza di diverse specie ematofaghe, associate all’uomo e agli animali domestici e in grado di trasmettere alla vittima microrganismi patogeni, attribuisce ai Culicidi una posizione di primaria importanza sotto l’aspetto medico-sanitario.

La storia di questa famiglia è poco documentata. La maggior parte dei resti fossili rinvenuti fanno capo a specie congeneri, affini a quelle attuali, vissute nell’Oligocene e nell’Eocene, altri reperti risalgono invece al Miocene. L’origine della famiglia è comunque databile, come per la maggior parte dei Nematoceri, al Mesozoico, per quanto pochi siano i reperti fossili: i più antichi culicidi rinvenuti risalgono al Giurassico inferiore o, più recentemente, fra il Giurassico superiore e il Cretaceo.

Secondo un’analisi statistica di ScienceAlert del 28 febbraio 2018, dal titolo “Deadliest creatures worldwide by annual number of human deaths as of 2018”, le zanzare sono al primo posto tra gli animali che ogni anno provocano maggiori morti umane. Seguono al secondo posto gli stessi esseri umani, i serpenti e i cani.

MORFOLOGIA
Le zanzare hanno un corpo allungato, esile e delicato, di piccole o medie dimensioni, in genere lungo 3–9 mm, al massimo 15 mm. La livrea è poco appariscente. Vi è uno spiccato dimorfismo sessuale che riguarda in particolare l’aspetto delle antenne, piumose in entrambi i sessi ma con setole più lunghe e più dense nel maschio, e la morfologia e la struttura dell’apparato boccale, in grado di perforare e succhiare nelle femmine.

Il capo degli insetti è ipognato, privo di ocelli e con occhi grandi e separati in entrambi i sessi. Le antenne sono relativamente lunghe e composte da 15 articoli. Il secondo articolo, detto pedicello, è vistosamente più grosso degli altri per la presenza dell’organo di Johnston: si tratta di un’espansione a coppa contenente all’interno un numero elevato di scolopidi, ovvero sensilli tricoidei dalla funzione complessa che, nei Culicidi, svolgono un ruolo fondamentale nella riproduzione.

L’apparato boccale è di tipo pungente-succhiante nelle femmine e semplicemente succhiante nei maschi. L’apparato boccale del maschio presenta l’epifaringe fusa con la prefaringe ed ha mandibole e mascelle rudimentali o del tutto assenti. Conseguenza di questa struttura è l’incapacità di perforare.

Nelle femmine, la conformazione degli stiletti boccali è tale da rendere il suo apparato uno dei più perfezionati nello svolgimento della sua funzione. Il lato ventrale del labbro superiore (epifaringe) è fortemente concavo e conformato a doccia in tutta la sua lunghezza. Le mandibole sono sottili e allungate e nell’estremità distale sono conformate a lama acuminata e tagliente. Le mascelle sono in gran parte ridotte e presentano invece un marcato sviluppo del lobo esterno (galea), che si presenta sottile e allungata, come la mandibola, e terminante con un’espansione a lama denticolata; alla base della mascella si inserisce il palpo mascellare, in genere composto da 5 articoli ma con gli ultimi due segmenti ridotti o assenti. Il labbro inferiore (detto proboscide) è conformato a doccia e termina con due lobi, formanti il labellum, aventi funzione sensoriale.

Dalla cavità orale sporge la prefaringe o ipofaringe, conformata a lamina allungata e percorsa, nel suo interno, da un dotto escretore attraverso il quale viene iniettata la saliva (canale salivare). Tutte le appendici boccali sono marcatamente sottili e allungate (dette perciò stiletti). La perforazione è eseguita dalle estremità taglienti delle mandibole e delle galee mascellari e nella ferita vengono infilati tutti gli stiletti ad eccezione del labbro inferiore. La suzione è praticata dal canale alimentare, formato dalla concavità dell’epifaringe chiusa ventralmente dall’ipofaringe. Il labbro inferiore svolge la funzione di conservare gli stiletti in posizione di riposo; durante l’alimentazione viene ripiegato a gomito, con l’estremità che funge da guida nell’atto di penetrazione da parte degli stiletti.

Il torace è dorsalmente composto in gran parte dallo scuto e presenta il margine posteriore dello scutello leggermente trilobato nella maggior parte dei Culicinae (escluso Toxorhynchites) e uniformemente arrotondato negli Anophelinae e in Toxorhynchites. Le zampe sono esili e lunghe, con tarsi composti da cinque articoli. Le ali sono strette e lunghe, con nervature rivestite da squame e setole e membrana rivestita da microtrichi. Hanno un profilo subrettangolare, con margine posteriore uniformemente convesso e lobo anale ampio. In fase di riposo sono ripiegate orizzontalmente sull’addome e reciprocamente sovrapposte.

La nervatura presenta la costa estesa all’intero margine, la subcosta lunga e parallela, confluente nel terzo distale del margine anteriore, radio suddivisa in quattro ramificazioni, media e cubito in due ramificazioni. Le vene più sviluppate sono quelle radiali, i cui rami confluiscono sulla zona apicale con percorsi diritti e paralleli. Le cellule basali sono due, delimitate rispettivamente dalla base della radio, dalla base della media e dalla base della cubito e, dal lato distale, da una successione di nervature trasverse composta dal settore radiale, dal tratto basale di R4+5, dalla radio-mediale, dalla medio-cubitale e dalla base del primo ramo della cubito. La prima biforcazione della media precede la confluenza della radio-mediale, perciò la cellula basale anteriore è leggermente più lunga di quella posteriore.

ANATOMIA
Per l’importanza del regime dietetico delle femmine, una particolare attenzione è riservata alla struttura anatomica dell’apparato digerente in questo sesso. Il tratto anteriore dello stomodeo, dalla faringe all’esofago, è caratterizzato nella maggior parte dei Culicidi dalla presenza di dentelli, più o meno sviluppati, la cui funzione è quella di rompere i globuli rossi del sangue aspirato ed i parassiti eventualmente presenti. La struttura più evidente è rappresentata, in ogni modo, dal sistema di diverticoli ciechi associati all’esofago, nella sua parte terminale, ubicata nel torace. Questi diverticoli sono in numero di tre, di cui due dorsali, simmetrici e di forma globosa, e uno ventrale, impari. Quest’ultimo, detto borsa del sangue si estende ventralmente per tutto il torace e la metà anteriore dell’addome. La funzione della borsa del sangue, malgrado il nome, non è associata all’ematofagia: in essa si accumulano, infatti, liquidi zuccherini di origine vegetale, assunti nell’ordinaria alimentazione. Meno conosciuta è invece la funzione dei diverticoli dorsali.

L’esofago termina nel proventricolo, una piccola espansione da cui parte il mesentero. Fra l’esofago e il proventricolo è posizionata la valvola cardiaca, che svolge la funzione di regolare il flusso dei liquidi dai diverticoli al mesentero. Il mesentero si compone di due parti, una anteriore, detta cardia, una posteriore detta stomaco. Il primo ha la conformazione di un tubo che si estende dal proventricolo e percorre il torace fino all’inizio dell’addome. Il secondo è una dilatazione del tubo digerente posizionata nella parte intermedia dell’addome e in essa si accumula il sangue succhiato dalla femmina. Come in tutti gli insetti, il sangue è avvolto dalla membrana peritrofica, al cui interno si svolgono i processi digestivi.

Il fondo dello stomaco comunica con il proctodeo attraverso la valvola pilorica. Il tratto iniziale del proctodeo è moderatamente espanso, si restringe in corrispondenza del colon e si espande nuovamente nel tratto finale, il retto. All’inizio del proctodeo si innestano i tubi malpighiani, che nelle zanzare sono in numero di cinque.

L’apparato visivo è composto da occhi muniti di ommatidium che contengono un ammasso di cellule fotorecettori circondate da cellule di sostegno e cellule del pigmento, la parte esterna è rivestito con una cornea trasparente, l’ommatidium è innervato da un fascio assone e fornisce al cervello un elemento dell’immagine. Il cervello forma un’immagine da questi elementi di immagine indipendenti.
Il diametro medio degli ommatidium equivale a 17,2 micron e l’angolo interno è di 6,2 gradi, che porta ad avere un angolo minimo 12,3 gradi, come conseguenza si verifica una ridotta acuità ma con elevata sensibilità generale alla luce con sensibilità spettrale compresa dai 323 nm a 621 nm con picchi di sensibilità a 323-345 nm e 523 nm.

HABITAT
L’habitat delle zanzare, nello stadio giovanile, è in generale rappresentato da acque stagnanti di varia estensione e profondità, dai fitotelmi alle piccole pozze temporanee, all’acqua piovana raccolta da particolari conformazioni di manufatti di varia natura, fino alle grandi aree umide delle zone interne o costiere (stagni, paludi, foci, ecc.). Sono colonizzate sia le acque dolci sia quelle salmastre. In generale sono evitati i corsi d’acqua, ma larve di zanzare possono essere presenti presso le rive nelle anse, dove l’acqua tende a ristagnare.

Nelle aree a forte antropizzazione, diverse specie si sono adattate sfruttando le opportunità offerte dall’uomo, in ambiente sia rurale sia urbano, laddove vi è la possibilità che si formi un ristagno idrico di una certa durata. Le larve di zanzara si rinvengono perciò nelle risaie o nelle colture in cui si attua l’irrigazione per sommersione, nei canali di bonifica e nelle scoline, nei bacini artificiali e nei serbatoi aperti di varia natura, nelle discariche, nelle acque di deflusso di reflui organici. In particolare, negli ambienti urbani, si sono adattate a sfruttare le fognature.

Gli adulti delle specie associate all’uomo tendono a frequentare gli ambienti antropizzati prossimi ai siti natali, perciò si ha una maggiore concentrazione di culicidi presso le aree umide. In condizioni di carenza dell’ospite umano utilizzano popolazioni di ospiti di sostituzione, tipicamente chiamati serbatoi, spesso rappresentati da Primati, animali domestici, uccelli. Per le loro abitudini crepuscolari e notturne, durante il giorno si rifugiano in luoghi ombrosi e freschi, fra la vegetazione fitta, spesso in cavità naturali, come il cavo degli alberi.

IMPORTANZA MEDICO-SANITARIA
I Culicidae sono considerati il raggruppamento sistematico di maggiore importanza, sotto l’aspetto medico-sanitario, nell’ambito della classe degli Insetti, soprattutto per l’ampia diffusione della famiglia, la stretta correlazione di alcune specie con l’uomo e l’emergenza sanitaria, su scala planetaria, rappresentata da alcune malattie di larga diffusione i cui agenti patogeni sono trasmessi proprio da specie appartenenti a questa famiglia. Le zanzare sono tristemente associate ad aree umide di difficile antropizzazione e considerate malsane proprio in virtù della maggiore incidenza delle malattie trasmesse da questi insetti, al punto di determinare l’evoluzione, nella specie umana, di emopatie congenite quali l’anemia falciforme, la talassemia, il favismo. Queste malattie, a base ereditaria, si sono diffuse in aree interessate dalla malaria come mezzo naturale di difesa e restano diffuse con una elevata frequenza nel germoplasma della popolazione anche dopo l’eradicazione del Plasmodium falciparum, come ad esempio è successo per l’anemia mediterranea e il favismo in alcune aree del Mediterraneo. La peculiarità di queste forme di anemia congenita risiede nel fatto di presentarsi in forma grave in omozigosi recessiva e in forma lieve in eterozigosi, offrendo in quest’ultimo caso una maggiore resistenza al plasmodio della malaria. La diffusione del gene, nelle popolazioni delle aree interessate dalla malaria, rappresenta una difesa genetica che compensa il costo biologico rappresentato dalla comparsa dell’affezione grave in condizioni di omozigosi, ma nel contempo costituisce una tara genetica gravissima allorché ne viene eradicata la causa ancestrale.

La puntura delle zanzare non è di per sé particolarmente dannosa: la saliva provoca infatti un effetto rubefacente e una reazione allergica cutanea che si manifesta sotto forma di irritazione cutanea di gravità variabile secondo il grado di sensibilità dell’individuo. Nelle regioni non interessate dalle malattie trasmesse, come ad esempio l’Europa e parte del Nordamerica, l’importanza delle zanzare è limitata alla trasmissione di malattie a carico degli animali domestici (ad esempio la Dirofilariasi del cane) e alla molestia arrecata all’Uomo, ma resta sempre uno dei principali settori d’intervento, in ambito sanitario, nei rapporti tra l’Uomo e gli insetti.

Per i motivi sopra esposti, la lotta alle zanzare ha dunque rappresentato uno dei principali obiettivi della bonifica idraulica delle aree umide e rappresenta tuttora uno dei più importanti settori dell’Entomologia applicata. In generale, fra le zanzare rientrano specie responsabili della trasmissione di malattie, a carico dell’uomo o di animali domestici, i cui agenti eziologici si collocano fra i virus, fra i protozoi del genere Plasmodium e fra i nematodi della famiglia dei Filariidae (filarie).

Le zecche sono artropodi, appartenenti all’ordine degli Ixodidi compreso nella classe degli Arachnidi, la stessa di ragni, acari e scorpioni. Si tratta di ectoparassiti ematofagi obbligati, cioè che vivono all’esterno del corpo dell’organismo ospite nutrendosi del suo sangue. Possono nutrirsi del sangue di mammiferi, uccelli o rettili. Le zecche sono diffuse in tutto il mondo e se ne conoscono circa 900 specie raggruppate in tre famiglie, di cui le principali sono le Ixodidae (zecche dure di cui al 2013 sono state classificate 702 specie) e le Argasidae (zecche molli di cui al 2013 sono state classificate 193 specie). Il loro sviluppo si svolge attraverso 4 stadi: uovo >larva >ninfa >adulto.

Sono parassiti ematofagi di molti animali e anche dell’uomo, e possono essere pericolosi agenti di trasmissione di malattie infettive.

DESCRIZIONE
Hanno dimensioni che variano da qualche millimetro a circa 1 centimetro secondo la specie e lo stadio di sviluppo. L’apparato boccale, di tipo pungente succhiatore, è costituito dal rostro o capitulum, con un robusto ipostoma con denti rivolti all’indietro. La dentatura dell’ipostoma con l’aggiunta di una sostanza collosa che viene secreta assieme alla saliva comportano che le ixodidae, ixos in greco significa “colla”, restino ancorate alla pelle dell’ospite e non sia semplice rimuoverle. Il capitulum delle zecche, al contrario di quello degli acari, è mobile.

Gli Ixodida sono i soli acari in cui l’assunzione di sangue condiziona la muta degli stadi immaturi a quelli successivi. Nel loro ciclo biologico alcune specie di zecche cambiano l’animale ospite da cui succhiare il sangue utilizzando individui diversi per cibarsi ad ogni stadio. Nel passaggio da un animale ospite all’altro il primo può assumere il ruolo di “serbatoio” degli agenti patogeni.

Le zecche dure hanno un caratteristico scudo dorsale chitinoso e comprendono 5 generi: Ixodes, Hyalomma, Rhipicephalus, Dermacentor, Haemaphysalis. Le zecche molli, così dette perché sprovviste di scudo dorsale, sono presenti con due generi: Argas e Ornithodorus. Queste ultime generalmente scelgono gli uccelli come animale ospide da cui succhiare il sangue. La più comune in Italia risulta essere Argas reflexus detta anche “zecca del piccione”. Le specie più diffuse e rilevanti da un punto di vista sanitario sia in Italia che in Europa sono Ixodes ricinus (la zecca dei boschi), Rhipicephalus sanguineus (la zecca del cane), Hyalomma marginatum e Dermacentor reticulatus.

La saliva delle zecche è una miscela complessa con varie funzioni. Subito dopo la perforazione della pelle dell’ospite, le zecche secernono un materiale bianco lattiginoso, simile al lattice, chiamato “cemento”, che si indurisce formando un cono che circonda l’ipostoma.
Ulteriori secrezioni nelle successive 48-72 ore aggiungono strati al cono di cemento; in alcune specie questa secrezione aggiuntiva di cemento scorre sulla pelle dell’ospite per rafforzare ulteriormente il punto di ancoraggio del parassita.

La composizione chimica del cemento consiste in una miscela di proteine antigeniche e non antigeniche, con lipidi e carboidrati negli strati più interni, questi ultimi principalmente nella forma di lipo- e glicoproteine. A seguito della creazione del cono di cemento, le ghiandole salivari della zecca si espandono e la sintesi proteica accelera.

Il pasto, la suzione del sangue dell’ospite, è accompagnato da una copiosa secrezione di liquidi salivari. Oltre ai precursori del cemento nelle cellule secretorie delle ghiandole salivari delle zecche stata identificata una varietà di enzimi.

Le ghiandole salivari delle zecche secernono anche molte sostanze farmacologicamente attive, inclusi anticoagulanti, prostaglandina E2 (PGE2) e prostaciclina, vasodilatatori, agenti antinfiammatori, antistaminici (in alcune specie) e altri. In alcune specie, vengono secreti gli enzimi che distruggono le bradichinine e le anafilotossine, proteine ospiti che svolgono un ruolo cruciale nella modulazione della risposta infiammatoria. In alcune comuni associazioni ospite / parassita agenti salivari sopprimerebbero componenti del sistema immunitario ospite, ad esempio cellule T, riducendo così al minimo la capacità di rigetto.

Alcune zecche, in alcuni ospiti, sarebbero in grado di modulare la risposta immunitaria dell’ospite regolando l’andamento dell’infestazione stessa e nel caso di trasmissione di un agente infettante ne possono favorire la sopravvivenza.

MALATTIE
Le malattie trasmesse dalle zecche sono patologie nell’uomo o nell’animale causate, patogenesi diretta, o veicolate, patogenesi indiretta, da varie specie di artropodi comunemente chiamati zecche.

La prima evidenza che le zecche fossero in grado di trasmettere microrganismi patogeni risale alla fine dell’800, quando (1893) Kilbourne, un veterinario americano, riscontrò come l’habitat della zecca del bovino, Boophilus microplus, coincidesse con i limiti territoriali di diffusione della cosiddetta febbre bovina del Texas. Contemporaneamente a Kilbourne, Smith, un giovane medico del Bureau of Animal Industry, individuò il protozoo Babesia bigemina (Pyrosoma bigeminum) come agente causale della febbre del Texas, oggi chiamata “babesiosi bovina”. La scoperta della patogenicità indiretta nelle malattie trasmesse dalle zecche e delle relazioni tra “agente patogeno-zecca-ospite vertebrato” da alcuni autori è considerata una delle maggiori scoperte nella storia della medicina.

Le malattie trasmesse dalle zecche rivestono una notevole importanza, economica e sanitaria, in campo zootecnico ma sta aumentando la loro incidenza anche a livello umano, sia a causa dei cambiamenti ecologici che determinano una maggiore distribuzione delle zecche, sia per un maggiore interesse per le attività all’aperto che pongono più frequentemente l’uomo a contatto con le zecche vettrici.

Nell’uomo si tratta per lo più di patologie infettive, zoonosi, veicolate dal morso o puntura della zecca mentre negli animali sono note patologie, come l’epatozoonosi, dovute all’ingestione di zecche infette. È possibile l’infezione nell’uomo dovuta all’ingestione di latte non pastorizzato ricavato da animali infetti.

Poiché le singole zecche possono ospitare più di un agente patogeno, l’uomo o animale può essere infettato da più di un agente patogeno contemporaneamente, aggravando la difficoltà di diagnosi e trattamento.